Ciao  Adriana Inglese, partigiana brindisina. Senza il coraggio delle donne non ci sarebbe stata alcuna Resistenza.  Vogliamo ricordarti riprendendo  le parole scritte tempo fa  da Francesco Gioffredi  sulle pagine del nuovo Quotidiano di Puglia:

Tra le macerie della storia, di quella storia che palpita di fascino, la signora Adriana si muove austera, ritta, poderosa, inerpicandosi sul quel bastone che agita per setacciare ricordi, ammonire, curvare nella memoria. Ora lieve, ora col cuore in tempesta, sempre ferma e decisa. Come se il presente fosse solo un figlio sbiadito del passato, il suo passato. Lo scrolla, il bastone, quasi scavando fra quelle macerie della storia, in cerca di paure livide e speranze luminose: i due opposti che solo la sequenza Resistenza-Liberazione riesce a saldare. Venticinque aprile 1945: a lei sembra ieri, una piroetta indietro di poche ore e nulla più. Gli occhi due spilli vividi, la voce nitida e roboante, il battere-e-levare di risposte a portata di lingua: Adriana Inglese sbeffeggia l’inganno della carta d’identità. Ha 85 anni, difficile crederlo. La storia in bianco e nero, quella buona per i libri, nel caso della signora Adriana s’accende coi colori della vita vissuta e imbevuta di paure, odori, suoni, sogni. La sua vita. Sa cos’è la Resistenza, i partigiani, le pallottole fatte sibilare dai nazifascisti, una città – Genova – solcata dalla trincea, di qua il rosso della Brigata Garibaldi, di là il nero delle camicie brune, in mezzo una ragazza di vent’anni col Sud nel dna e la guerra negli occhi.
Brindisi, Genova e poi di nuovo Brindisi: in Puglia ci è nata («a Palazzo Nervegna», aggiunge) e ci è tornata per metter su famiglia, a metà c’è il monumentale spartiacque degli anni nel capoluogo ligure. Sufficienti per far passeggiare la storia nella sua vita: Adriana, durante la Resistenza in Liguria, smistava messaggi clandestini ai partigiani, al telefono nel pieno della notte e col nodo alla gola. I partigiani della Brigata Garibaldi, poi, li ha visti marciare trionfalmente su Genova, nel giorno della Liberazione. Luce dopo le tenebre, l’immagine è fiamma che le accende il cuore e brucia negli occhi: «Quant’erano belli con quel fazzoletto rosso al collo», declama commossa e tenera, come se sfilassero ora e qui. Sorride, la signora Adriana: un lembo di 25 aprile sente di averlo annodato con le sue mani e i suoi messaggi. Ricordi che soffiano d’incanto la polvere dalle macerie. Senza che occorra scrollare il bastone per scavare. La casa di Adriana Inglese Paloscia, un palazzotto antico nel centro di Brindisi, è un museo silenzioso. «Questo – spiega mostrando una stanzetta linda e spartana – è il mio pensatoio»: tanti libri, un poster di Che Guevara («Il mio amore»), una mazza di hockey su erba («Ci giocavo a Genova. Nuotavo, anche: 400 metri stile libero»), un armadio stipato di ricordi, foto d’epoca. Molte: Adriana nel giorno del matrimonio, Adriana in costume, Adriana ventenne con lo sguardo intriso di sogni.

Si parte da qui, dai sogni: «Lasciammo Brindisi perché tutti noi figli volevamo studiare all’Università. Papà era nella Marina militare, chiese al ministero della Difesa il trasferimento in una città universitaria. A Roma non era possibile, ci mandarono a Genova, vivevamo dov’era la Capitaneria». Gesticola e quando racconta non riesci a starle dietro, la voce che echeggia forte da quel corpo d’atleta. Il racconto va prepotentemente dove la storia reclama: «Genova negli anni della guerra era bersagliata dai bombardamenti notturni. C’erano 5-6 allarmi, ci rifugiavamo nelle gallerie, il porto era avvolto dalla nebbia dei fumogeni». La famiglia Inglese non restò impassibile dinanzi allo sfregio, proprio no. Adriana e sua sorella Fernanda – giovani, belle, studentesse universitarie – decisero di sporcarsi le mani con la polvere della storia: «Aiutavamo, nel massimo riserbo, i partigiani.
Io, nel cuore della notte, ricevevo una telefonata. Non sapevo chi c’era dall’altra parte, sentivo solo una voce che mi dettava un numero di telefono e poi un messaggio (ad esempio “I fiori sono alla finestra”). Io dovevo ripetere quel messaggio al numero indicato, senza sapere chi fosse il destinatario. “I fiori sono alla finestra”, comunque, stava a indicare l’arrivo dei paracadutisti con armi e viveri». Da brividi le missioni della sorella, che s’era guadagnata i galloni del rischio per via dell’età:
«Fernanda è cinque anni più grande. Lei faceva la vera e propria staffetta: grazie a un ufficiale di collegamento, riusciva a portare ai prigionieri politici dei panini imbottiti di messaggi. Poverina: all’ingresso c’era sempre un tedesco che le accarezzava i capelli dicendole “Bella signorina”.
Ha rischiato la vita sul serio». E il bastone s’agita. l tono della signora Adriana s’increspa di repulsione quando la narrazione
vira verso quella parola: tedeschi. «Le “megere” venivano all’Università per “reclutare” ragazze perché ballassero alle feste con i nazisti, ci avrebbero dato anche vestiti eleganti. Noi abbiamo sempre detto di no». Non solo danze, però. I teutonici sapevano far fischiare, eccome, i pallettoni: «Il 24 aprile ero dietro la finestra, un tedesco vide qualcosa muoversi e sparò. Il colpo mi passò sulla testa e finì sul muro dell’appartamento. Una seconda volta ero in strada: mirarono verso di me e ad un’altra ragazza a cui cercai di fare scudo col mio corpo». La memoria sa lavorare per rarefazioni e lievitazioni: il racconto della signora Adriana ansima come un mantice quando s’arriva lì, alla Liberazione. «L’annuncio ci arrivò dai francesi, Genova era blindata. Fu un’emozione unica, commovente, vedere i partigiani arrivare in corteo con i nazisti prigionieri. Io gridavo ai tedeschi “Raus! Raus!” ( ndr: in tedesco vuol dire “fuori”). Ma non dimenticherò mai i partigiani così belli col fazzoletto rosso al collo». Pochi mesi dopo, dicembre, Adriana Inglese sarebbe diventata la signora Paloscia: treno e giù fino a Brindisi. Addio Genova, con quella faccia un po’ così. Ma senza anestetico ai ricordi, altroché. Parli di Liberazione e la signora Adriana s’apre in un sorriso di tempra e sogni antichi. Il passato, stavolta senza mulinare il bastone per ripescarlo, è ora e qui. In questa casa dove il 25 aprile zampilla, sempre.
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