CONTRO-FORUM G7

L’altro FORUM G7: AMBIENTE ? pensa alla salute!È il tema del primo incontro pubblico tenuto a Brindisi  il 22 maggio 2024 presso l’ex Convento Santa Chiara via Santa Chiara n.2 il primo degli appuntamenti decisi in regione Puglia per il CONTRO- FORUM G7.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Programma

  • Riscaldamento globale, desertificazione terreni produttivi con migrazioni di massa. Europa ed Africa: Mediterraneo, ponte

tra popoli fratelli o eterno cimitero dì vite e di futuro?
intervengono: Giuseppe De MARZO (Responsabile Politiche sociali di UBERA e coordinatore della Rete dei numeri pari)
Michela TRINCHESE (Esperto in governance delle migrazioni e cambiamento climatico)

  • Cambiamenti climatici e transizione energetica: Uscita dal fossile e impatti socioeconomici. Comunità energetiche.

Interviene:  Daniela SALZEDO (Presidente LEGAMBIENTE Puglia)

  • Correlazione Ambiente-Salute: inquinamento e stato salute popolazione; salute riproduttiva;
    Allevamenti intensivi, crimini tollerati e finanziati; patologie correlate. Registro tumori.

intervengono: Cesare DE VIRGILIO (Medico, Direttore artistico presso TEDx)
Antonino ARDIZZONE ‘Consulente Registro Tumori ASt Br)

  • Conflitti per insediamenti produttivi sostenibili. Il caso Brindisi: la lotta popolare ai deposito costiero GNL Edison.

Intervengono: Antonio MACCHIA (Segretario generale CGIL Brindisi)

  • Non si può morire di lavoro, non si può morire al lavoro.
    Interviene: Luca CONVERTINI (Medico del lavoro – Dirigente ASI Br)
  • Quali investimenti per la Sanità pubblica: contestualizzare il PNRR per adattarlo concretamente alle esigenze dei territori.
  • Diritto umano fondamentale o privilegio per pochi? La nostra idea di CURA
    Intervengono: Fulvio PICOCO (Psichiatra, Psicoterapeuta)
    Nunzia BAGLIVO (Medico del lavoro – Volontaria EMERGENCY)

 

 

 

 

 

 

 

Il documento di Brindisi su Ambiente e salute

 L’emergenza climatica col riscaldamento globale provoca tra l’altro l’aumento dei decessi della popolazione anziana e la desertificazione di terreni produttivi con migrazioni di massa.

Crediamo sia necessario creare una consapevolezza delle decisioni e dei comportamenti individuali quotidiani, già nei consumi, che possono essere indirizzati verso pratiche e prodotti meno impattanti climaticamente  di aziende che dimostrano concretamente di rispettare la salute e la dignità dei lavoratori e di ogni vivente, umano e animale.

Perché insistiamo su alcuni temi?

Prendiamo le energie rinnovabili, produrre  energia dal sole, dal vento, dal moto ondoso, anche dal tetto di casa propria, di una scuola o di un ospedale costituendo Comunità energetiche, senza bruciare fonti fossili, evitando quindi di immettere altri gas impattanti e rendendosi finalmente energicamente indipendenti dai governi non democratici e corrotti.

Rendersi indipendenti dalle forniture di energia da fonti fossili vuol dire anche liberarsi dalle continue speculazioni finanziarie che penalizzano indistintamente famiglie e imprese, che hanno determinato per ultime le immotivate e insostenibili quotazioni del gas alla borsa di Amsterdam già mesi prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

Il calare complessivo della domanda di energia fossile (carbone, gas, petrolio e derivati), renderà inoltre molto meno “convenienti” le guerre di conquista dei paesi e territori con tali giacimenti.

Quindi difendere l’ambiente vuol dire per noi difendere contestualmente i diritti sociali e civili di tutti: rispettare e promuovere la giustizia sociale, il diritto alla salute inteso come promozione e garanzia del pieno benessere psicofisico di bambini e anziani, donne e uomini anche dei Sud del mondo, nelle più sguarnite (di servizi, possibilità e speranze), periferie; il diritto allo studio, come leva insostituibile di emancipazione personale e partecipazione, come Federico II intuì esattamente 800 anni fa fondando a Napoli la prima Università al mondo pubblica e laica.

Il diritto a spostarsi ovunque, per lavoro, studio o piacere, col trasporto collettivo più sicuro e meno impattante anche sui tempi di vita di ognuno di noi.

Difendere l’ambiente vuol dire anche tutelare le fasce meno abbienti e non il contrario, come provano a far credere leader populisti di destra e imprenditori legati al fossile. L’esempio delle case green, chiesto dall’UE ai paesi membri per abitazioni ad esempio meno esposte a caldo e freddo attraverso cappotti e infissi termici, va promosso e non temuto, se opportunamente sostenuto da progetti europei di riqualificazione dell’edilizia pubblica residenziale e delle abitazioni delle famiglie meno abbienti, altrimenti soggette a bollette energetiche insostenibili e a una tassa occulta sulle abitazioni non green, per l’inevitabile perdita di valore di mercato rispetto alle abitazioni con indici di efficienza energetica più alti.

Difendere l’ambiente per noi significa ancora promuovere e partecipare ai confronti e alle lotte territoriali per  insediamenti produttivi sostenibili, in alternativa a quelli inquinanti e a rischio per la salute di persone e lavoratori e della stessa sicurezza delle città, penalizzandone al contempo lo sviluppo produttivo e occupazionale. Emblematico il caso Brindisi: la lotta popolare al deposito costiero GNL Edison.  

Non siamo nati per avere solo beni da consumare nel ridotto delle nostre solitudini e paure sempre più rancorose e diffuse, ma per collaborare con sorelle e fratelli di ogni paese, “colore” e credo religioso, senza più sfruttamento dell’uomo sull’uomo e di rapina insostenibile delle risorse ambientali, per un Mediterraneo, ponte tra popoli fratelli, non più cimitero di vite e di futuro,  per una vita pacificata, giusta e dignitosa, finalmente per tutti.

Ad un mondo che si va disgregando in entità territoriali sempre più piccole per indotte esigenze autonomistiche, ma che al contrario comporteranno rapide e nuove dipendenze economiche e politiche, per generare infine altri momenti di conflitti, serve l’intelligenza collettiva del popolo della Terra. La sua voce dal basso  deve sollevarsi con determinazione e chiarezza, per ristabilire ovunque le giuste priorità di giustizia sociale e climatica e di Pace.

 

Mentre noi adulti creiamo confini e intolleranze tra persone, i nostri bambini giocano tra loro senza distinzioni di genere, religioni, colore della pelle, provenienze di quartiere o nazionalità: prendiamo esempio da loro, prima di provare a guastarli.

 

Il documento del CONTRO-FORUM G7 tenuto a Bari il 31 maggio e il primo giugno.
8 miliardi di persone: la Puglia per un mondo di Pace e Giustizia
La nostra Puglia, “arca di pace, non arco di guerra” tra popoli, questo giugno ospiterà il G7, che si preannuncia come un summit per accelerare la transizione delle economie occidentali verso l'”economia di guerra”, con costosissimi programmi di riarmo. Il pericoloso scontro in atto con la Russia potrebbe giungere a una guerra nucleare, con esiti catastrofici per l’intera umanità. I leader del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, USA), dopo 2 atroci anni dall’inizio della guerra in Ucraina, ancora fanno finta di non capire quello che i movimenti pacifisti, Papa Francesco e quasi tutti al mondo avevano da subito ben compreso: la necessità di un Tavolo negoziale di Pace già poche ore dopo la coraggiosa e dignitosa reazione del popolo ucraino alla criminale invasione russa. E un mare di altro sangue innocente scorre in Palestina e nei troppi teatri di guerra in corso ogni giorno, ogni secondo, nel mondo.

Ci sono dei momenti in cui si avverte che non è più possibile né etico delegare, restare alla finestra senza assumere posizioni e che è necessario impegnarsi con determinazione per sostenere quelle giuste.
È fin troppo evidente che ci sono molteplici deprecabili appetiti su questa, come su tutte le guerre, che sarebbe inutile enumerare, come, al contrario, c’è un unico ed enorme, assordante, irrinunciabile e indifferibile diritto dei popoli di tutto il mondo alla PACE.
Pace finalmente, con un Tavolo negoziale sotto l’egida dell’ONU chiesto dall’Europa con una sola e autorevole voce a Russia, Ucraina, Stati Uniti e Cina, per fermare questa guerra rimuovendo le cause che certamente non potevano in alcun modo giustificarla. Andranno stabilite regole di convivenza e collaborazione pacifica tra Stati, dove prevalgano i veri diritti delle persone di ogni continente e non gli sporchi interessi militari, speculazioni finanziarie e di potere dei pochi, con sottrazioni di risorse alla risoluzione delle grandi questioni al centro dell’Agenda ONU 2030 che rischia di rimanere inattuata, rimandando ulteriormente i grandi obiettivi di giustizia e sostenibilità sociale e ambientale concordati fra tutte le nazioni.
Già in passato, in occasione del Vertice G8 a Genova nel 2001, con la Russia allora amica, davanti a leader che per tanti riprovevoli motivi non riuscivano ad anteporre i bisogni della stragrande maggioranza di donne e uomini agli interessi di pochi, si contrapponeva il meraviglioso slogan “Voi G8, noi 6 miliardi”.
Ancora di più adesso è necessario dare voce rappresentativa, organizzata, autorevole al popolo della Terra, ormai 8 miliardi di persone, partecipando tutti, persone, associazioni, movimenti, comitati, ai dibattiti pubblici del nostro Contro-forum, arricchendo l’elaborazione delle 7 tesi individuate per il giusto e pacificato governo del Pianeta, in alternativa alle tesi di guerra ai popoli e all’ambiente, che si discuteranno al Vertice G7. Basta contrapporre logiche di guerra a pratiche di guerra, fornendo agli ucraini armi sempre più sofisticate e distruttive, contribuendo all’irrefrenabile escalation militare, bramata dai vertici USA, GB e NATO, e a tante altre migliaia di vittime.
Altrimenti perché non fornirle anche ai palestinesi, o ai curdi che invece avevamo armato quando dovevano combattere e fermare l’Isis, via via fino alla minoranza cinese uiguri, vittima quotidianamente di ogni peggiore umiliazione e violazione dei minimi diritti umani, come le donne e i dissidenti in Iran e Afghanistan? Una spirale di violenza infinita e insensata.
Partiamo dal “basso”, per portare sempre più su la voce dei popoli della Terra, magari con un’ONU autonoma, non più limitata da anacronistici vincoli legati ai diritti di veto.
Per creare una consapevolezza delle decisioni e dei comportamenti individuali quotidiani, già nei consumi, che possono essere indirizzati verso pratiche e prodotti meno impattanti climaticamente di aziende che dimostrano concretamente di rispettare la salute e la dignità dei lavoratori e di ogni vivente, umano e animale.
Non siamo nati per avere solo beni da consumare nel ridotto delle nostre solitudini e paure sempre più rancorose e diffuse, ma per collaborare con sorelle e fratelli di ogni “colore” e credo religioso, senza più sfruttamento dell’uomo sull’uomo e di rapina insostenibile delle risorse ambientali, per un Mediterraneo, ponte tra popoli fratelli, non più cimitero di vite e di futuro, per una vita pacificata, giusta e dignitosa, finalmente per tutti.
Venerdì 31 maggio dalle 16.00 alle 20.00 e sabato 1 giugno dalle 9.00 alle 21.00, ci confronteremo presso l’Istituto dei Missionari Comboniani in via G. Petroni 101 a Bari.
Di seguito i temi guida individuati da approfondire e dai quali dovranno scaturire obiettivi e campagne su cui mobilitarsi (per es. abolizione del regolamento di Dublino, campagne di boicottaggio delle aziende che inquinano o che non garantiscono la sicurezza sul lavoro, distribuzione equa nel mondo delle risorse e delle opportunità, potenziamento della sanità pubblica):

VENERDÌ 31 MAGGIO
ore 16: Istruzione
Ore 18: Palestina

SABATO 1 GIUGNO
ore 9: Intelligenza artificiale
Ore 11: Guerra
Ore 15: Lavoro
Ore 17: Ambiente e Salute
Ore 19: Migrazione

Comitato promotore:
ANPI, ARCI, CGIL, Comitato Io Accolgo Puglia, Libera, Forum del Terzo Settore, Greenaccord, Legambiente, Link, Missionari Comboniani, Movimento Nonviolento, Rete dei Comitati per la Pace di Puglia, Pax Christi, Peacelink, Radici Future, Rete degli Studenti Medi, Rete della Conoscenza, Unione degli Studenti, Unione degli Universitari, Un Ponte Per

Il 25 aprile a Brindisi

Il 25 aprile a Brindisi


Si è tenuta giovedì 25 aprile in Piazza Santa Teresa di Brindisi, la celebrazione del 74° Anniversario della Liberazione.
La Cerimonia è stata presieduta dal Prefetto di Brindisi Dott. Umberto Guidato,  e hanno partecipato Autorità Civili, Religiose e Militari della Città e della Provincia di Brindisi, erano inoltre presenti i Gonfaloni della Città, de vari Comuni della provincia di Brindisi.

La manifestazione, come ormai da tradizione consolidata, si è conclusa in piazza Sottile De Falco con l’omaggio alla memoria, promosso dal comitato provinciale dell’ANPI,  ai decorati al Valore Militare e ai caduti della Resistenza e della guerra di Liberazione, è intervenuto per un saluto  il sindaco della città Riccardo Rossi.

 

 

 

 

 

E anche a Tuturano

Fermo da due anni il cantiere della piazzetta di Tuturano, li dove gli antifascisti della frazione avevano installato una targa in onore dei Caduti della Resistenza. Ma il 24 aprile  l’ANPI di Brindisi non si è fatta fermare dalle transenne ormai perenni e sotto quella targa ha deposto una corona d’alloro. Breve ma significativo discorso contro i pericoli di ritorno al passato e contro il razzismo del, presidente del Comitato provinciale ANPI.

 

 

 

 

Il partigiano  Pietro Parisi, nome di battaglia  “ Brindisi” non poteva mancare alla cerimonia del 25 aprile in valle d’Aosta:

 



Una brutta storia

Ci ha colpito in modo particolare una lettera apparsa sul sito: http://www.piazzasalento.it/ del 25 novembre di questo anno, racconta una storia di violenze sulle donne nel lontano ’42, fatti accaduti a Gallipoli nel cosiddetto “Capo di Lecce”, perché qualcuno non finga e continui a dire che i fascisti non sono mai esistiti o che erano tutti brave persone, come scrive la stessa autrice della lettera, il tempo è trascorso, gli autori delle violenze, sono morti da tempo, come scrive la lettera firmata, ma rimane storia terribile ed un “contesto” di cui è bene tenerne memoria, ed è questa la ragione della pubblicazione sul sito dell’ANPI di Brindisi.

 

 

 

 

 

Quel Ferragosto del ’42 che non dimenticherò mai. Per giustizia, non deve scomparire con me

 

Caro direttore,

ti prego di pubblicare la mia lettera, per non dimenticare. Era il giorno di Ferragosto del 1942 e io avevo 8 anni. Vivevo a Gallipoli Vecchia con solo mia madre, perché il mio papà era in guerra. Quasi tutti i padri delle mie amiche erano in guerra e c’era molto poco da mangiare. Quel giorno a tavola c’era un po’ di pane e la scapece. Io, bambina, odiavo la scapece che sapeva di aceto e stavo facendo i capricci per non mangiarla. A pomeriggio saremmo andate, io e la mamma, a piedi ad Alezio, dove si festeggiava la Lizza e avremmo venduto dei cappellini fatti all’uncinetto da lei, così avremmo avuto qualche soldo. Mi prometteva la mamma che lì avremmo comprato qualcosa di più buono da mangiare. All’improvviso quattro uomini sfondarono la porta ed entrarono in casa. Urlavano, la mamma piangeva, io pure. La nostra vicina entrò e, anche lei piangendo, li tirava per la camicia e chiamava aiuto. Ma nessuno veniva. Si sapeva di loro. Entravano nelle case dove sapevano che non c’erano uomini e aggredivano le donne. Erano camicie nere. Gente potente, sapevano di essere intoccabili e così era. Ci spogliarono entrambe e mi costrinsero a guardare mentre approfittavano della mia mamma e la picchiavano. Poi si gettarono addosso a me. Ci dicevano che nessun uomo c’era a difenderci, nessuna legge, neanche Dio. Ricordo benissimo le loro voci, i loro volti, la loro puzza. All’improvviso, come erano venuti, se ne andarono ed entrarono nella casa accanto alla nostra. Lì i bambini erano sei, maschietti e femminucce. Li sentivo piangere, li sentivo urlare. Mia madre mi chiese di non raccontare niente a nessuno.

Non ci fu mai nessun Ferragosto nella mia vita. In quel giorno andavo via da Gallipoli. E non andai mai più neanche ad Alezio. Tornarono ancora. E andarono in altre case. La guerra finì, papà tornò, non gli dicemmo mai nulla, ma quei mostri restarono a vivere le loro vite come se niente fosse. Chi lavorava come impiegato pubblico, chi aveva l’impresa, chi affittava appartamenti.

Quando mi sposai avevo paura di mio marito e non sono mai stata veramente felice con lui, anche se è sempre stato un brav’uomo. Hanno approfittato di tante altre bambine della città vecchia. Non sono mai stati puniti. Alcune, da grandi, hanno provato a denunciarli ma sono state prese per pazze o trattate come prostitute in cerca di denaro. Io non ho mai svelato il segreto a mio marito, né ai miei figli. Temevo facessero una pazzia. Sono morti tutti quei quattro, da vecchi. Sono andata a ciascun funerale, perché volevo vederli morti. Tante volte ho sognato che li stavo uccidendo io… Pochi anni fa è morto l’ultimo, vecchio vecchio, non lasciava l’anima a Dio. Al suo funerale ho raccontato tutto alla figlia, quasi della mia età. Bastardo, aveva una figlia della mia età. All’inizio ha finto di non credermi, ma poi è venuta a cercarmi per offrirmi dei soldi. Le ho fatto una scenata e l’ho cacciata fuori di casa, quella stessa casa in cui suo padre era entrato e non una volta sola.

Prima di morire, voglio lasciare questo ricordo, perché qualcuno non finga e continui a dire che i fascisti non sono mai esistiti o che erano tutti brave persone.

Lettera firmata, Gallipoli

Si ringrazia il direttore di Piazzasalento Fernando D’Aprile

La lettera è sul sito: http://www.piazzasalento.it/ del 25 nov 2015, nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

La lettera era già presente sul numero 17 di Piazzasalento 27 agosto- 9 settembre 2015

 

I TRAGICI FATTI DI PARIGI E I PERICOLI DI UNA “GUERRA GLOBALE”.

NOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI CARLO SMURAGLIA:

I TRAGICI FATTI DI PARIGI E I PERICOLI DI UNA “GUERRA GLOBALE”.

Contrapporre agli assassini l’unità dei popoli e dei governi del mondo e respingere ogni tentativo di approfittare di una situazione drammatica in nome del razzismo di sempre

Ciò che è avvenuto a Parigi, nella notte tra venerdì e sabato, suscita un orrore infinito e una angoscia immensa per le tante vite spezzate, tra cui moltissimi giovani, nella dolorosa certezza che il macabro elenco dei morti sia destinato ad aumentare e nella speranza che la maggior parte dei numerosissimi feriti riesca a uscire da questa esperienza, recando con sè soltanto un ricordo terribile.

Questi moti dell’animo sono insopprimibili e devono resistere anche al decorso dei giorni e del tempo, per chiunque abbia chiara nozione di quanto grande sia il valore della vita umana e quanto deprecabile ogni atto di violenza che colpisca prima di tutto le persone.

Noi sappiamo che chi compie questi atti non ha alcun rispetto per la vita e per la persona; si spara nel mucchio, non solo per fare presto, ma per convincerci che nessuno può sentirsi al sicuro. In un contesto del genere, la vita, la persona, i sentimenti, la felicità, la gioia e l’allegria non esistono: c’è solo la cupa immagine di chi è pronto perfino a rinunciare alla propria vita, se è necessario, per raggiungere un obiettivo pazzesco, nel quale la vita degli altri non conta nulla.

Non dobbiamo dimenticarlo. Tutto questo, senza querimonie, senza isterismi e senza indulgere troppo sulle scene più strazianti. Per chi ragiona, basta molto meno per provare l’orrore e il desiderio spasmodico di fare il possibile perché questi drammi non possano avvenire mai più, pur con la consapevolezza atroce che, invece, si ripeteranno ancora e ci saranno altri disperazioni, altri lutti, fino a quando non si risveglierà la ragione.

Questo è il senso del dolore e dell’orrore, che non tollerano schematizzazioni e insistenza sui particolari nel descrivere il peggio. Un dolore e un orrore simili possono oggi essere leniti solo da un gesto che è accaduto e che ci richiama al senso dell’umanità: una donna appesa disperatamente ad una finestra che grida e una mano sconosciuta che l’afferra e la salva. Qui c’è tutto il senso del confronto che non possiamo non fare tra chi dà consapevolmente la morte e chi crede alla solidarietà ed al valore inestimabile della persona. Finché ci saranno gesti di questo genere, potremo avere la speranza che l’umanità e la solidarietà riescano a trionfare.

Tuttavia, non c’è orrore, non c’è dolore, per quanto grande, che non richieda – per assumere un significato vero – una riflessione seria e adeguata. Ed è quella che in questi giorni, pur col cuore ed i sentimenti sconvolti, dobbiamo riuscire a fare, resistendo anche a qualche impulso spontaneo ma improduttivo.

C’è una guerra in atto, diversa da tutte le guerre che abbiamo, purtroppo, conosciuto (ed alcune, vissuto); diversa, certamente, dalla guerra tradizionale dove sono due o più nemici che si scontrano con i loro eserciti e il fatto che ci vadano di mezzo, talvolta, anche donne e uomini che non vestono una divisa e non impugnano un’arma, è deprecabile, ma pur “secondario” rispetto al dato principale.

Qui non c’è nulla di tutto questo; non c’è un nemico facilmente identificabile, non ci sono eserciti tradizionali in campo. Siamo di fronte a una guerra con connotati che non corrispondono neppure alle altre forme assunte, nel tempo, dalla violenza e dalla contrapposizione di idee e/o interessi, visibili e percepibili facilmente, perché non si tratta neppure di ritorsioni o di rappresaglie (ricordate la vicenda di Charlie Hebdo?), ma di atti che, in altri tempi, sarebbero stati definiti come “gratuiti”.

Diversa perfino rispetto al terrorismo “classico”, quello che nel mondo si è sperimentato in questo scorcio di secolo e in una parte di quello precedente. Un terrorismo che colpiva specifici obbiettivi, anche sbagliati, ma pur sempre obiettivi definiti, in nome di una idea, di un fanatismo, di un fondamentalismo, insomma di qualcosa che si poteva percepire e dunque anche combattere con (relativa) facilità.

Siamo di fronte ad una situazione nuova anche rispetto a quel tragico 11 settembre di New York, dove c’era un’evidente organizzazione, una provenienza definibile ed un obiettivo altrettanto percepibile. Questa è una situazione, in qualche modo, ancora più perversa. C’è un “Califfato” che si autoproclama come Stato, ci sono forze e mezzi militari che uniscono all’orrore di alcuni atti individuali, quello di vere e proprie battaglie, di esecuzioni di massa, di “vittorie” conseguite colpendo vite umane incolpevoli e solo indirettamente coinvolte in un ipotetico conflitto e talora rivolgendo la furia distruttiva su beni artistici di inestimabile valore. Ma c’è, accanto a tutto questo, anche una sorta di esercito invisibile, sparso in varie zone e in vari Stati e capace di colpire, dall’interno – senza una vera logica ed un qualsiasi collegamento – in luoghi svariati, con massacri di valore simbolico e ammonitivo.

In un limitato lasso di tempo, c’è stato l’assalto a Charlie Hebdo, del gennaio scorso, a Parigi, l’attentato in Tunisia, l’attentato (ormai sicuro, per quasi tutti, come tale), contro l’aereo russo, precipitato, in mille pezzi, in Egitto; ed ora questo mostruoso, molteplice attentato in varie zone di Parigi, diretto contro persone inermi, intente a seguire uno spettacolo o un concerto e addirittura tentato contro uno stadio, pieno di folla (per fortuna quest’ultimo, non riuscito).

Tutto questo sembra fatto per dire che nessuno può stare tranquillo da nessuna parte ed in nessun momento della sua vita; che non c’è un nemico preciso, individuabile, contro cui si spara, ma c’è una folla in qualche modo anonima, come quella di Parigi, o quella che viaggiava sull’aereo russo, “utilizzata” per un sacrificio che sarà di ammonimento per tutti.

Qualcuno ha detto che è una guerra “globale”. Può darsi, ma solo nel senso che è diretta verso un bersaglio globale, perché ognuno può essere colpito o dall’esercito dell’ISIS nei luoghi ove esso è impegnato, oppure da una schiera non identificata né identificabile di persone disposte a tutto, per creare insicurezza nel mondo e dimostrare che c’è solo una forza invincibile, l’ISIS.

Di fronte ad un fatto del genere, tutte le guerre che conosciamo, in Africa ed in altre parti del mondo, scolorano, perché nessuna di esse riesce ad assumere questo carattere di intimidazione e di violenza “globale”, in nome di qualcosa che è addirittura peggiore di un “fondamentalismo“ classico.

Come si reagisce ad una “guerra” del genere? Certo, come tutte le “novità”, anche questa non consente ricette predefinite; ma di alcune cose possiamo già essere convinti e certi.

La prima è che, se vogliono intimidirci e renderci insicuri, la cosa peggiore da fare sarebbe quella di cedere e rinunciare a fatti ed eventi già predisposti (penso, per esempio, al Giubileo), perché questa sarebbe una prima, sicura, vittoria di questo inafferrabile nemico. La seconda è che non dobbiamo cedere alle paure e chiuderci in casa; le manifestazioni subito avvenute in tante parti d’Italia, al di là del dolore e della partecipazione commossa, dimostrano proprio questo, che c’è voglia di reagire, di non farsi chiudere nel recinto delle paure, di impegnarsi contro gli assassini, anche se alcuni di loro possono assomigliare al vicino di casa ed apparire “normali”. E fin qui, si tratta delle cose che competono a noi, cittadine e cittadini, che amiamo la libertà, respingiamo la violenza, la sopraffazione e l’intimidazione. Ma poi c’è ben altro, e questo compete agli Stati, a chi ci governa, a chi – insomma – dovrebbe “governare” il mondo, almeno su una base comune, quella del rispetto dei diritti umani. Molti Stati, compreso il nostro, hanno già adottato misure di sicurezza, intensificato i servizi di controllo, allertato i presìdi nei luoghi più simbolici; va bene ma, certo, occorre ancora di più, proprio perché uno dei “simboli”, il peggiore in un certo senso, è costituito proprio, dall’eccidio di massa, dall’assassinio di persone inermi, che mai potrebbero o dovrebbero costituire un obiettivo. Si impone allora un collegamento fra gli Stati e soprattutto fra i loro servizi segreti. Si sono già viste, in varie occasioni, falle clamorose nei presìdi di sicurezza, come a Sharm-el-Sheik, o anche, con ogni probabilità, a Parigi. Un collegamento forte e stretto fra i servizi aiuterebbe certamente a “prevenire”, ad individuare per tempo i soggetti pericolosi, ad apprestare quanto necessario, anche con l’aiuto dei cittadini e delle Autorità locali, per individuare le fonti sospette e foriere di tempesta.

C’è ancora di più, alla fine. Qui entra in campo la politica, quella con la “P” maiuscola, che ancora non si riesce ad intravvedere, a livello europeo e mondiale, riducendosi spesso a mosse isolate, non adeguate alla bisogna, in alcuni casi generiche e in altri, addirittura avventate. Si è avuta l’impressione, più volte, in Libia, ma poi anche in Iraq, in Siria, in Medio Oriente, che ognuno si adoperasse per combattere il “nemico”, ma in realtà, perseguendo un proprio interesse, talora non compatibile con quelli degli altri e, in ogni caso, da essi indipendente. Ci vuole una “politica europea” e ci vuole un politica mondiale. Bisogna finirla con l’idea che con i bombardamenti si risolve tutto ed, a maggior ragione, con il sistema che ognuno bombarda per conto proprio (e per ragioni sue). Questo, non serve a nulla, neppure contro la forma più organizzata (il Califfato), ma a maggior ragione contro il “nemico” isolato, diffuso, che colpisce all’improvviso, in questo o quel Paese. Se non si costruisce un fronte veramente compatto, che contrapponga alla violenza mortale e alla volontà di dominare il mondo, una barriera che sappia al tempo stesso muoversi sul terreno militare e su quello dell’intelligence, avremo altri lutti e altri attentati e continueremo a disperarci, senza costrutto. E’ possibile, è necessario, realizzare, almeno su questo, una vera unità di intenti, senza retropensieri e senza interessi più o meno confessabili. Se questa “guerra” è contro

tutti, occorre che siano proprio “tutti” a reagire, a impegnarsi, perché solo così si può pensare di vincerla. E si deve vincerla, in nome dell’umanità, della solidarietà e della fratellanza. Parole forse nuove per alcuni governanti, che hanno perso, anche in Europa, l’abitudine di usarle, ma che dovranno crescere nella mentalità collettiva degli Stati e dei cittadini di tutti i Paesi del mondo. Insomma di fronte al fenomeno drammatico di giovani che si esaltano e uccidono sulla base di princìpi inesistenti, bisogna riaffermare il contenuto ed il significato dei valori veri, quelli della nostra democrazia e della nostra civiltà.

Certo, ha ragione Claudio Magris, quando ci ammonisce che “la violenza va repressa con la violenza, ma anche esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco”, e, se posso permettermi un’aggiunta “con l’insegnamento dell’esigenza assoluta di rispetto dei diritti umani, delle ragioni della cultura e delle ragioni della civiltà”.

So che tutto questo rappresenta un impegno nuovo e diverso rispetto al passato e che per perseguire simili obiettivi bisogna riuscire a mettere da parte, tutti, una serie di pregiudizi e di interessi personali (di singoli e di Stati). Se davvero si tratta di una guerra “globale”, l’unica risposta sicura non può che essere, a sua volta, “globale”.

Voglio soffermarmi un momento, prima di concludere, su un altro aspetto, estremamente pericoloso, che può essere determinato (e lo è già in qualche modo) da vicende come quelle di cui stiamo parlando.

La Polonia, per fare un esempio, ha già dichiarato che “di fronte a questi fatti, non si possono più accettare stranieri” e non è certamente un caso isolato. Sono in molti ad avere interesse a inserire il “nemico” invisibile, in un’area ben precisa, che è quella dei migranti. Non importa che già sia dimostrato che fra gli assassini emergono figure di cittadini europei, francesi, belgi e così via; la speculazione è troppo a portata di mano perché non ne approfittino i razzisti, gli xenofobi di sempre. Io sono d’accordo che qualche misura vada presa, prontamente, da tutti gli Stati per accelerare, al massimo, le procedure di identificazione e riconoscimento di chi vuole entrare in un Paese che non è il suo. A questo si sarebbe dovuto provvedere da un pezzo, nell’interesse di tutti; ma ci sono ritardi enormi. Questa è una misura da adottare finalmente dagli Stati europei se davvero temono l’ingresso di soggetti pericolosi e “non identificabili”.

Al di là di questo, che corrisponde a razionalità e perfino a ragioni umanitarie (oltre a quelle di sicurezza), non c’è alcuna ragione per opporre barriere a tanta gente che fugge proprio da violenza, terrorismo, fondamentalismi e guerra. Chi specula su questo dimostra, ancora una volta, il suo vero volto che è solo sempre quello del razzista; e come tale va trattato. E il razzismo, come è noto, è – assai spesso – anche l’anticamera del fascismo. Bisogna rispondere, dunque, anche con un lavoro di grande informazione e di formazione culturale, per impedire che certe idee, spesso non spontanee ma incrementate e diffuse ad arte, attecchiscano, sulla scia dell’orrore e della paura. Anche sotto questo profilo, ci incombe il dovere della chiarezza.

Il nostro ruolo, quello di una Associazione che si basa sui valori fondanti della nostra Repubblica, è quello di pretendere, con forza, che si faccia tutto quanto necessario per garantire la sicurezza dei cittadini, senza cedere di un millimetro di fronte alle intimidazioni ed agli assalti; rendendo evidente, nel contempo, che occorre anche la collaborazione e l’impegno fattivo di tutti, cittadine e cittadini e c’è anche – e va sottolineato con forza – il dovere di respingere, con altrettanta forza, i tentativi di chi pensa di approfittare di una drammatica “guerra mondiale”, del tutto innovativa rispetto alle precedenti, per realizzare i loschi obiettivi che sono tipici del peggior razzismo.

 

 

LEGGE ELETTORALE E RIFORMA DEL SENATO: ERA (ED E’) UNA QUESTIONE DEMOCRATICA

Il 21 febbraio a Torino incontro pubblico promosso dall’ANPI Nazionale. Interverranno Carlo Smuraglia, Gustavo Zagrebelsky, Sandra Bonsanti e Antonio Caputo. Adesioni di ARCI e Libertà e Giustizia. La partecipazione della CGIL

Una legge elettorale che consente di formare una Camera con quasi i due terzi di “nominati”, non restituisce la parola ai cittadini, né garantisce la rappresentanza piena cui hanno diritto per norme costituzionali. Quanto al Senato, l’esercizio della sovranità popolare presuppone una vera rappresentanza dei cittadini fondata su una vera elettività. Togliere, praticamente, di mezzo, una delle Camere elettive previste dalla Costituzione, significa incidere fortemente, sia sul sistema della rappresentanza, sia su quel contesto di poteri e contropoteri, che è necessario in ogni Paese civile e democratico e che da noi è espressamente previsto dalla Costituzione (in forme che certamente possono essere modificate, a condizione di lasciare intatte rappresentanza e democrazia e non sacrificandole al mito della governabilità).

Sabato 21 febbraio a Torino, in un incontro pubblico a più voci, verrà ribadito con forza che i provvedimenti in questione costituiscono un vero e proprio strappo nel nostro sistema democratico.

In un momento di particolare importanza, come questo, ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, affrontando i problemi nella loro reale consistenza e togliendo di mezzo, una volta per tutte, la questione del preteso risparmio con la riduzione del numero dei Senatori, perché uguale risultato potrebbe essere raggiunto riducendo il numero complessivo dei parlamentari.

Ai parlamentari, adesso, spetta il coraggio delle decisioni anche scomode; ai partiti, se davvero vogliono riavvicinare i cittadini alle istituzioni ed alla politica, compete di adottare misure e proporre iniziative legislative di taglio riformatore idonee a rafforzare la democrazia, la rappresentanza e la partecipazioneanziché ridurne gli spazi. Ai cittadini ed alle cittadine compete di uscire dal rassegnato silenzio, dal conformismo, dalla indifferenza e far sentire la propria voce per sostenere e difendere i connotati essenziali della democrazia, a partire dalla partecipazione e per rendere il posto che loro spetta ai valori fondamentali, nati dall’esperienza resistenziale e recepiti dalla Costituzione.

L’Italia può farcela ad uscire dalla crisi economica, morale e politica, solo rimettendo in primo piano i valori costituzionali e le ragioni etiche e di buona politica che hanno rappresentato il sogno, le speranze e l’impegno della Resistenza.

 

ADERISCONO ALL’INIZIATIVA ARCI Nazionale e Libertà e Giustizia

 

“Parteciperemo con interesse alle iniziative di confronto e approfondimento che saranno promosse sul processo di riforma istituzionale in atto, a cominciare da quelle messe in campo dall’ANPI, nel rispetto delle differenti valutazioni di merito sui singoli temi”.

 


27 gennaio “Giorno della Memoria”

Riproduciamo, a beneficio di tutti, il testo integrale della legge che ha istituito il Giorno della Memoria Legge n. 211 del 20 luglio 2000

Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.

Art. 1

La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetti i perseguitati.

Art. 2

In occasione del “Giorno della memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.

La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

23.826 sono gli italiani deportati (22.204 uomini e 1.514 donne) che furono deportati nei lager nazisti per motivi politici. Di questi 10.129 non tornarono.

I dati sono in una ricerca promossa dall’Aned, Associazione Nazionale Ex Deportati, e svolta dai ricercatori del Dipartimento di Storia dell’Università di Torino che hanno lavorato sugli archivi ufficiali dei campi di concentramento, dei ministeri dell’Interno di Austria e Germania e della Croce Rossa incrociando le informazioni con gli elenchi dei deportati che in questi decenni sono stati ricostruiti e conservati sia da singoli deportati e dalle loro associazioni, sia da istituti storici locali.

Antifascisti della prima ora, partigiani, prigionieri di guerra ma anche criminali abituali detenuti nelle carceri italiane e consegnati dalla Repubblica di Salò ai tedeschi, asociali, politici ebrei, lavoratori civili emigrati in Germania, cattolici: per ciascuna di queste categorie nei campi di sterminio c’era una sigla di identificazione.

11.432 furono designati come ‘Schutzhaftling’ (deportati per motivi di sicurezza), 3.723 come ‘Politisch’ (in buona parte già presenti nel Casellario politico centrale dell’Italia fascista), 801 erano AZR, abbreviazione di “Arbeitszwang Reich”, ovvero ‘asociali’, categoria di solito attribuita ai criminali comuni e in alcuni casi a soldati imprigionati dopo l’8 settembre. KGF, “Kriegsgefangene” erano i prigionieri di guerra; BV, “Berufsverbrecher”, criminali comuni; altri ZA, “Zivilarbeit”, lavoratori civili; “Geistlicher”, religiosi; “Pol Jude” o “Schutz Jude” erano gli ebrei considerati anche oppositori politici.

Diversa la classificazione ma uguale il destino: schiavi del Terzo Reich, manodopera per le esigenze della macchina bellica di Hitler. Le morti furono, sul totale, 10.129, una percentuale vicina al 50%, che arrivò al 55% nel lager di Mauthausen. Fu tuttavia Dachau, con 9.311 persone, il luogo con il maggior numero di deportati politici; a seguire, Mauthausen con 6.615, Buchenwald con 2.123, Flossenburg con 1.798, Auschwitz con 847 e via via gli altri campi. Dall’incrocio dei dati, balza evidente il fatto che oltre il 25% dei deportati fu catturato in operazioni di rastrellamento: in 716 di queste – di cui si conosce la composizione dei reparti – ben 224 (il 31,3%) furono condotte unità militari o di polizia di Salò.

Giorgio Rochat storico che si è occupato degli aspetti “statistici” scrive:

Ebrei.

Le lunghe, accurate ricerche di Liliana Picciotto Fargion per il Centro di documentazione ebraica contemporanea danno un totale di 5916 morti dei 6746 ebrei italiani deportati in Germania e nominativamente accertati, cui sono da aggiungere 305 ebrei uccisi in Italia e un migliaio di deportati per i quali le notizie sono incomplete. Sono gli italiani uccisi perché ebrei; altri ebrei italiani, che caddero come partigiani, sotto i bombardamenti o per altre cause, sono logicamente compresi in queste voci.

Deportati politici nei lager nazisti.

Gli italiani deportati nei campi di sterminio furono 45 / 46 000, i sopravvissuti il 10 per cento. Sono cifre abbastanza sicure. Da questi 40/41 000 morti bisogna detrarre circa 7000 ebrei già contati sopra e un certo numero di partigiani mandati a morire in Germania. Non abbiamo però alcun elemento per sapere quanti fossero costoro per evitare di conteggiarli due volte, come caduti partigiani e come caduti nei campi di sterminio. Operiamo quindi una forzatura e diamo l’unica cifra “inventata” di queste nostre pagine (perché calcolata senza riferimenti almeno parziali), ossia diciamo che dei circa 34 000 morti in Germania (abbiamo già tolto gli ebrei)

10 000 sono da contare tra i caduti partigiani e 24 000 come deportati politici.


Le iniziative sul  territorio di Brindisi:

Giornata della Memoria nei saloni della Prefettura il 27 gennaio alle ore 11 si ricorda una delle pagine più tragiche della storia europea del ‘900, ci sarà una delegazione di studenti, il Prefetto consegnerà le medaglie d’onore a cittadini che hanno vissuto l’esperienza dell’internamento.

 

Giornata della Memoria: alla scuola Pertini incontro con militare deportato e “La Vita è bella”

In occasione della giornata della memoria, in data 27/01/2015, alle ore 9.00, nell’Aula Magna “Sandro Pertini” della Scuola Secondaria di primo grado, al quartiere Sant’Elia, le classi 2A-2B-2C-3A-3B incontreranno il sig. Ambrogio Colombo, militare durante la Seconda Guerra Mondiale.Il sig. Ambrogio, per ventuno mesi, fu prigioniero nel campo di concentramento di Dachao e verrà a raccontare agli alunni dell’I.C. Sant’Elia-Commenda le sue dolorose vicende, perché nessuno dimentichi.

Gli alunni rivolgeranno al sig. Colombo alcune domande, per meglio comprendere le condizioni di vita in cui versavano i prigionieri in quel campo di concentramento.

Dopo l’incontro, che avverrà alle ore 9.00, gli alunni vedranno il film “ La vita è bella” sulle cui tematiche i docenti apriranno alla fine un dibattito. All’evento saranno presenti anche i genitori.

 

San Pancrazio l’assessorato alla cultura organizza nell’aula consiliare alle 17,30 la proiezione di documentari sulla deportazione, poi ci sarà la declamazione di poesie di Primo Levi e di Joyce Lussu oltre che l’ascolto di canzoni di Francesco Guccini.

 

Comune di Erchie con ANPI Brindisi 27 gennaio 1945 – 27 gennaio 2015-01-26

ore 17,30 auditorium scuola media G.Pascoli Erchie iniziativa Voci della memoria

con la proiezione di un documentario film “prima di tutto l’uomo” di Elio Scarciglia, ci sarà poi la testimonianza del sig. Nicola Santoro internato n.159534; i Cantacunti faranno un“il bosco di betulle”; infine ci sarà il cortometraggio “una voce lontana” a cura dei ragazzi della scuola media; mora Giuseppe Morleo .

 

 

Francavilla Fontana il liceo classico “Lilla” e l’ANPI organizzano per il 28 gennaio presso il cinema teatro Italia alle ore 9 la giornata della memoria nell’occasione incontreranno il sig. Ambrogio Colombo, militare durante la Seconda Guerra Mondiale, internato prima a Peschiera poi preso in carico dalle truppe SS deportato al campo di Dachau successivamente fui trasferito nel campo di Kottern.

Poi ci sarà la proiezione di un documentario film “prima di tutto l’uomo” di Elio Scarciglia il documentario inizia un viaggio a ritroso nel tempo, si indaga sui diritti negati all’uomo nell’imminente passato, varie testimonianze raccontano di fatti e misfatti del secolo scorso. Si parte dalla Casa Rossa di Alberobello e si approda alla Risiera di San Sabba di Trieste. Il sud e il nord legati da una bellissima figura di uomo libero, Vincenzo Antonio Gigante, nato a Brindisi, che, pronto a sacrificare anche la vita per i propri ideali, viene arrestato e infine deportato nell’unico campo di concentramento italiano con forno crematorio, la Risiera di San Sabba appunto, dove fu torturato e ammazzato dai nazisti, senza però rivelare i nomi dei suoi compagni.

Sulla deportazione, nei locali del liceo classico da giorni è esposta la mostra dell’ANED:

 

Intervento di Ambrogio Colombo al teatro Italia di Francavilla Fontana, giorno 28 gennaio.

 


[..]Avrete notato che ho una medaglia: è quella che l’ex- Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha voluto donarmi e che mi è stata consegnata il 27 gennaio 2011, in prefettura dall’allora sindaco di Brindisi Onorevole Mennitti.

Venendo al nostro incontro, vi dirò che, malgrado i miei quasi 95 anni, ricordo quel periodo come fosse ieri, anche se sono trascorsi quasi settant’anni dai tragici avvenimenti che coinvolsero il nostro paese dal 1943 al 1945 e penso, con una punta di sofferenza, che oramai siamo rimasti in pochi a testimoniare quelle vicende dolorose che vanno ricordate “perché nessuno dimentichi”.

Per voi giovani le parole “deportazione, internamento, prigionia, lager, sterminio, reduci” sono termini appresi leggendo i libri; a me rievocano luoghi, persone e fatti drammatici vissuti da giovane: avevo 23 anni.

Con l’entrata dei Tedeschi in Italia, dopo l’8 settembre del 1943, fui fatto prigioniero e, avendo rifiutato di collaborare con i fascisti, fui rinchiuso nel Castello di Peschiera sul Garda con centinaia di altri militari.

Il18 settembre venimmo caricati su carri bestiame militari, senza ricevere né acqua, né cibo per tutto il tragitto. Iniziò, così, il viaggio verso la Germania e ricordo che non ci era nemmeno permesso di soddisfare i bisogni più elementari. Per quattro giorni vivemmo tra fame, sporcizia e paura, ignari del nostro destino.

Finalmente il 22 settembre arrivammo a destinazione e stanchi, sporchi e impauriti venimmo caricati come bestie su camion e internati nel lager di Dachau. (Dachau si trova nella regione tedesca della Baviera, a 12 Km a nord-ovest di Monaco ed è, ancor oggi, tristemente famosa per la presenza di un campo di concentramento di prigionieri politici, istituito all’avvento del regime hitleriano nel 1933.)

Dal 30-01-1933 al 1945 vi morirono più di 300.000 persone (avversari politici del nazismo).

A tale proposito, non posso ignorare i 3.000.000 di esseri umani dei campi di concentramento di Auschwitz- Birkenau, in Polonia, sterminati anche nei “forni crematori” e, per la maggior parte, Ebrei.

A Dachau fummo consegnati alle S. S. (servizi di sicurezza di Hitler), denudati, rasati a zero, privati di tutto, vestiti di grigio come carcerati, con due zoccoli di legno ai piedi, tipo olandese e con a disposizione soltanto una gavetta e un cucchiaio di alluminio. Venimmo accatastati in capannoni, su letti a castello di legno. Il vitto giornaliero consisteva in un pezzo di pane nero di circa 165 grammi e una scodella di brodaglia a base di rape, crauti e bucce di patate.

Da quel momento non ero più un uomo, ma solo un numero: il 54007.

Il 28 settembre 1943, con un altro centinaio di prigionieri, venni trasferito nel lager di Kempten, sempre nella bassa Baviera. Si viveva un vero e proprio inferno tra fame, malattie, maltrattamenti, bombardamenti e morti.

Intanto, la città di Monaco subiva pesanti bombardamenti da parte degli Alleati a causa della presenza della vicina fabbrica di aerei: la Messersshmitt che cominciò a costruire nuovi tipi di bombe.

Pur debilitati dagli stenti e dai maltrattamenti, venimmo usati per ogni tipo di lavoro nei campi e nelle strade per l’intera giornata. Sotto i bombardamenti e controllati a vista, rientravamo sfiniti nel campo per riprendere, il giorno dopo, gli stessi pesanti lavori. Intanto l’avanzata delle truppe russe, da Oriente e di quelle degli Alleati (Inglesi e Americani) da Occidente, provocò la perdita di militari

tedeschi e sollevò il problema della mancanza di manodopera nelle industrie. Ciò ci permise di essere utilizzati per lavori all’esterno del campo, di godere di maggiore libertà personale, di poter recuperare un po’ più di forze, potendo reperire, di nascosto, del cibo per alimentarci. Questa la mia vita per 21 mesi dei quali, a conclusione, voglio ricordare due soli episodi.

Il primo: approfittando di un momento di disattenzione delle S.S., tentai di fuggire, nascondendomi di giorno e cercando di allontanarmi, di notte La mia fuga, però, durò solo 48 ore. Avevo dimenticato che vestito da prigioniero, con la testa rasata e gli zoccoli non mi sarebbe stato possibile non essere riconosciuto. Ripreso e portato nel piazzale del campo, in presenza degli altri internati, mi furono inflitte 15 frustate; fui lasciato lì per l’intera giornata con un cartello appeso al collo su cui era scritto: “ICH BIN ZURUCK”- “IO SONO TORNATO”. Ricordo che due prigionieri si presero cura di me per oltre 20 giorni, mi curarono con impacchi di acqua fredda

e fette di patate sulle piaghe. Piano piano, giorno dopo giorno, le ferite guarirono; mi fu così possibile riprendere la vita di campo, impegnato in lavori all’interno del lager.

 

L’altro episodio attiene la mia liberazione. Mentre gli Americani avanzavano verso Berlino da una parte e i Russi dall’altra, incolonnati, venimmo spostati per la ricerca di altri campi di prigionia. Il 5 maggio 1945, all’ingresso di un paesino, sentimmo che da un balcone una donna gridava: “American panzer!”- “Carri armati americani!”. Si verificò un grande scompiglio tra le S.S. che non tardarono a darsi alla fuga; la guardia al mio fianco estrasse la pistola, sparò al suo cane e fuggì anche lui.

Fummo così salvati. Aspettammo gli Americani che ci dettero subito assistenza, ci ripulirono, ci sfamarono e ci visitarono. Finalmente ero libero! Trattenuto per farmi recuperare un po’ le forze, dopo oltre 20 giorni, e precisamente il primo giugno 1945, accompagnato dalla Croce Rossa Internazionale, arrivai a Bolzano accolto dal Comitato di Liberazione Nazionale “Alto Adige”. Un volontario del Comitato stesso mi accompagnò con la sua auto a Milano dove trovai la mia casa distrutta dai bombardamenti. Tramite il Centro Reduci, fui messo in contatto con quello di Castelnuovo nei Monti di Reggio Emilia; lì seppi che mia moglie Annita che aveva lavorato come tranviera a Milano si era rifugiata presso la madre a Vetto (RE) dove mi recai e potei abbracciarla insieme con mia figlia Marisa.

Iniziò qui la mia rinascita fisica e morale, dopo 21 mesi di “schiavitù” che mi avevano ridotto ad una larva umana.

Oggi sono qui non solo perché invitato, ma perché questa mia testimonianza serva a tutti per ricordare una pagina delle più tristi della seconda guerra mondiale e perché “i giovani sappiano e gli anziani ricordino” l’orrore della guerra.

Come vedete, dopo tante sofferenze, si può rinascere e il mio impegno, dopo la liberazione, è continuato nell’ambito dell’attività sindacale, civile e sociale che cerco ancora di portare avanti, perché voi giovani non siate costretti a vivere i periodi bui vissuti da me e perché mai più vengano calpestati i diritti dell’uomo.

 

Grazie Ambrogio Colombo

 

 

i tragici fatti di Parigi

L’ANPI si unisce al cordoglio, allo sdegno, alla protesta e all’impegno per la libertà di tante nazioni europee ed extraeuropee dopo i tragici fatti di Parigi. C’è troppa violenza nel mondo e dobbiamo essere pronti a reagire con forza e tempestività a tutti gli attentati alla vita e alla convivenza civile.



 

A Brindisi manifestazione la sera dell’8 gennaio in piazza Sottile De Falco


 

 

Cancellare subito lo scandalo della Bossi-Fini. Aderisce all’appello Carlo Smuraglia Presidente Nazionale dell’ANPI

 

Cancellare subito lo scandalo della Bossi-Fini

di STEFANO RODOTÀ

Le terribili tragedie collettive sono ormai diventate grandi rappresentazioni pubbliche, che vedono tra i loro attori i rappresentanti delle istituzioni, ben allenati ormai nel recitare il ruolo di chi deve dare voce ai sentimenti di cordoglio, dire che il dramma non si ripeterà, promettere che “nulla sarà come prima”. Il pellegrinaggio a Lampedusa era ovviamente doveroso, arriverà anche il presidente della Commissione europea Barroso, si è già fatta sentire la voce del primo ministro francese perché sia anche l’Unione europea a discutere la questione. Sembra così che sia stata soddisfatta la richiesta del governo italiano di considerare il tema in questa più larga dimensione, guardando alle coste del nostro paese come alla frontiera sud dell’Unione.

 

Attenzione, però, a non operare una sorta di rimozione, rimettendoci alle istituzioni europee e non considerando primario l’obbligo di mettere ordine in casa nostra. Lunga, e ben nota da tempo, è la lista delle questioni da affrontare, a cominciare dalla condizione dei centri di accoglienza dove troppo spesso ai migranti viene negato il rispetto della dignità, anzi della loro stessa umanità. Ma oggi possiamo ben dire che vi è una priorità assoluta, che deve essere affrontata e che può esserlo senza che si obietti, come accade per i centri di accoglienza, che mancano le risorse necessarie. Questa priorità è la cosiddetta legge Bossi-Fini.

 

La Bossi-Fini è quasi un compendio di inciviltà per le motivazioni profonde che l’hanno generata e per le regole che ne hanno costituito la traduzione concreta. Per questa legge l’emigrazione deve essere considerata come un problema di ordine pubblico, con conseguente ricorso massiccio alle norme penali e agli interventi di polizia. All’origine vi è il rifiuto dell’altro, del diverso, del lontano, che con il solo suo insediarsi nel nostro paese ne mette in pericolo i fondamenti culturali e religiosi. Un attentato perenne, dunque, da contrastare in ogni modo. Inutile insistere sulla radice razzista di questo atteggiamento e sul fatto che, considerando pregiudizialmente il migrante irregolare come il responsabile di un reato, viene così potentemente e pericolosamente rafforzata la propensione al rifiuto. Non dimentichiamo che a Milano si cercò di impedire l’iscrizione alle scuole per l’infanzia dei figli dei migranti irregolari, che si è cercato di escludere tutti questi migranti dall’accesso alle cure mediche, pena la denuncia penale.

 

In questi anni sono stati soltanto i pericolosi giudici, la detestata Corte costituzionale, a cercar di porre parzialmente riparo a questa vergognosa situazione, a reagire a questa perversa “cultura”. Già nel 2001 la Corte costituzionale aveva scritto che vi sono garanzie costituzionali che valgono per tutte le persone, cittadini dello Stato o stranieri, “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, sì che “lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha il diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti”. Un orientamento, questo, ripetutamente confermato negli anni seguenti, motivato riferendosi all'”insopprimibile tutela della persona umana”.

 

Le persone che ci spingono alla commozione, allora, non possono essere soltanto quelle chiuse in una schiera di bare destinata ad allungarsi. Sono i sopravvissuti che, con “atto dovuto” della magistratura”, sono stati denunciati per il reato di immigrazione clandestina. Di essi non possiamo disinteressarci, rinviando tutto ad una auspicata strategia comune europea. I rappresentanti delle istituzioni, presenti a Lampedusa o prodighi di dichiarazioni a distanza, non possono ignorare questo problema, mille volte segnalato e mille volte eluso. Così come non possono ignorare il fatto che lo stesso soccorso “umanitario” ai migranti in pericolo di vita è istituzionalmente ostacolato da una norma che, prevedendo il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, fa sì che il soccorritore possa essere incriminato. A tutto questo si aggiunge la pratica dei respingimenti in mare, anch’essa illegittima e pericolosa per i migranti, sì che non deve sorprendere che proprio in questi giorni il Consiglio d’Europa abbia definito sbagliate e pregiudizievoli le politiche italiane nella materia dell’immigrazione.

 

L’unica seria risposta istituzionale alla tragedia di Lampedusa è l’abrogazione della legge Bossi-Fini, sostituendola con norme rispettose dei diritti delle persone. Contro una misura così ragionevole e urgente si leveranno certamente le obiezioni e i distinguo di chi invoca la necessità di non turbare i fragili equilibri politici, di fare i conti con le varie “sensibilità” all’interno dell’attuale maggioranza. Miserie di una politica che, in tal modo, rivelerebbe una volta di più la sua incapacità di cogliere i grandi temi del nostro tempo. Siano i cittadini attivi, spesso protagonisti vincenti di un'”altra politica”, ad indicare imperiosamente quali siano le vie che, in nome dell’umanità e dei diritti, devono essere seguite.

Non è degna di un paese civile una legge che accusa di clandestinità i sopravvissuti di una tragedia e che accusa di complicità i soccorritori. Cancelliamo lo scandalo della legge Bossi-Fini.

L’ANPI di Brindisi aderisce alla raccolta di firme sull’appello di Rodotà pubblicato su la Repubblica

Sottoscrivo l’appello con assoluta e ferma convinzione che occorre compiere al più presto un atto di giustizia e di umanità contro ogni violazione dei diritti umani e contro ogni forma, diretta e indiretta, esplicita o implicita, di razzismo.Un Paese civile non può tollerare ancora lo scempio e i drammi che avvengono sotto i nostri occhi. Ed è tempo anche di riconoscere lo jus soli perché la parola “accoglienza” acquisti finalmente un significato concreto ed esteso. Lo richiede, più di ogni altra cosa, la nostra coscienza civile“.

Carlo Smuraglia Presidente Nazionale dell’ANPI

Percorsi di Liberazione tappa per tappa, testo per testo

Di seguito sono elencate e descritte per sommi capi le diverse tappe dei “Percorsi di Liberazione” del 25 Aprile in città, sono riportati inoltre ed in corrispondenza i testi letti nelle varie tappe
2 –   Luogo principale  di raduno: Corso Roma per la deposizione di una corona dinanzi alla lapide di Vincenzo Gigante,  saluto da parte della presidenza dell’ANPI di Brindisi. Si ONORA la MEMORIA con un elenco di  partigiani e partigiane della provincia di Brindisi che hanno
partecipato alla lotta di Liberazione in varie parti del Paese:
DE TOMMASO Orlando. Nato ad Oria il 16 febbraio1897. Capitano dei carabinieri. Caduto alla Magliana a Roma, il 10 settembre 1943. Medaglia d’oro al valor militare (alla memoria).
GIGANTE Antonio Vincenzo. Nato a Brindisi il 3 febbraio 1901 e residente a Roma. Muratore. Dirigente comunista. Denunciato al Tribunale speciale nel 1934, al termine di una condanna ventennale, per “costituzione del PCI, appartenenza allo stesso e propaganda, viene internato il 3 gennaio 1942. Evaso nel settembre 1943. Viene iscritto alla Rubrica di frontiera. Catturato dai nazisti nel novembre 1944 ed ucciso. Medaglia d’oro della resistenza.
AYROLDI Antonio. Nasce ad Ostuni (BR) il 10 settembre 1906, fucilato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Maggiore dell’Esercito e Medaglia d’argento al valor militare alla memoria.

BARLETTA Giuseppe. Nato a Brindisi l’8 aprile 1925 e morto a Sestri Levante il 18 marzo 1945. Partigiano combattente.
GASCO Giovanni Mario. Nato a Brindisi, nel 1904. Caduto a Cefalonia, 24 settembre 1943 .Già capitano dei complemento dei CC. Della Div. Acqui. Decorato con Medaglia d’Argento.

SPADINI Guido. Nato a Brindisi. Decorato con Medaglia d’Argento.
EFTIMIADI Marco. Nato a Brindisi, il 24 gennaio 1921. Partigiano dal 9 settembre 1943 nella formazione GAP del IX Corpo dell’ELPJ. Viene impiccato come ostaggio, assieme ad altri 50 martiri, a Trieste, in via Ghega, il 23 aprile 1944.
ALTAVILLA Raffaele di Albino e di Maria Giovanna. Nato a Tuturano, nel 1920.  Partigiano nella Div. Garibaldi in Iugoslavia. Medaglia di bronzo alla memoria.
GRAFITTO Giovanni. Nato a Brindisi da Teodoro e Addolorata Alessandrini. Già paracadutista e poi  decorato con Medaglia di Bronzo, per aver combattuto contro i nazifascisti, in Toscana ed Emilia, dal 13 marzo 1944 al 22 aprile 1945.
MASIELLO Vito. Nato a San Vito dei Normanni. Decorato con Medaglia di bronzo, (alla memoria).Combattente i nazifascisti, in zona La Fratta (Bologna) – 19 aprile 1945.
PALUMBO Vincenzo Salvatore. Nato a San Pancrazio Salentino. Decorato con Medaglia di Bronzo.
RUCCO Salvatore. Nato a Brindisi. Decorato con Medaglia di Bronzo.
PARISI Pietro. Nato il 6 luglio 1924 a Cisternino (BR). Contadino. Partigiano, con il nome di battaglia Brindisi, è al fianco della 176 Brg. Garibaldi dal 1° novembre 1943al 7 giugno 1945.
GUADALUPI Mario. Nato a  Brindisi, il 5 gennaio 1924. Partigiano.  – Virgilio – 182 Brg. Garibaldi dal 12 settembre 1944 al 7 giugno 1945. E’ venuto a mancare ieri all’età di 86 anni, dopo una lunga malattia.
DONNE:
CARPINO Anita Teresa. Nato a Brindisi il 9 agosto 1921. Patriota della 113a Brg. Garibaldi, avendo combattuto per mesi 11 e 5 giorni, in Lombardia;
CAVALLO Vittoria in Gaeta. Nato il 20 ottobre 1903 a Latiano (BR) e residente a Torino. Sarta. Comunista. Diffidata. Patriota con il –  nome di battaglia Vera, nella 107b Brg. Garibaldi, in Piemonte,
CIGARINI Giulia, di Eugenio. Nato a Brindisi il 29 novembre 1917. Partigiana nella I Brg. Garibaldi per 19 mesi in Lombardia,
COLUCCI(A) Antonia. Nata a Fasano (BR) il 10 aprile 1924. Partigiana, con il nome di battaglia Marisa, milita nel Comando Generale Matteotti per mesi 16 in Lombardia;
DE CAROLIS Vittoria. Nato a Fasano, il 20 novembre 1912. 9 Brg. Sap dal 19 gennaio 1945 al 7 giugno dello stesso anno.
ESPOSITO Rosetta. Nata il 23 gennaio 1922 a San Pancrazio Salentino. Diploma magistrale. Partigiana. Staffetta informativa dal 10 settembre 1944 al 2 giugno 1945.
GRECO Procacci Addolorata. Nata il 9 febbraio 1920 a Brindisi. Arrestata nel mese di agosto a Venaria (TO), perché sospettata di tenere contatti con i partigiani, viene prima detenuta presso il Comando Nembo di Venaria, poi presso le Carceri Nuove di Torino, poi in quelle di Milano, di Bolzano ed infine deportata in Germania. Arriverà nel lager di Ravensrueck l’11 ottobre 1944. Classificata come politica. Verrà poi liberata.
GUADALUPI Elena, in Paitan. Nata a Brindisi il 1 marzo 1903. Partigiana per 14 mesi nella missione OAT. in Lombardia,
MAGGI Filomena. Nato il 12 maggio 1912, a Fasano. Partigiana. – Maggi – Gruppo Morettini – 6 Divisione GL dal 24 settembre 1943 all’ 9 giugno 1945.
TAMBURINI Addolorata. Nato il 27 luglio 1926, a San Vito dei Normanni.– Alda –7 Divisione GL – Brg. Mazzini, dal 10 novembre 1944 all ‘ 8 maggio 1945. Benemerita.
TODESCHINI Bianca, di Domenico. Nato a Fasano (BR), il 25 settembre 1922. Patriota. Combatte i nazifascisti, per 14 mesi e 25 giorni, dalle file della Brg. X Giornate, nel Bresciano.
TODESCHINI Carla, di Domenico. Nato a Fasano (BR), il 25 settembre 1922. Partigiana. Combatte i nazifascisti, per 14 mesi e 25 giorni, dalle file della Brg. X Giornate, nel Bresciano.
INGLESE Adriana in Paloscia nata a Brindisi telefonista per i partigiani a Genova.
3)    Piazza Cairoli sosta ove fu sede del Comitato provinciale di Liberazione  di Brindisi. Saranno letti stralci  del verbale della prima  seduta  del 9 agosto 1943 e l’appello lanciato ai cittadini ad  alba di libertà e di fratellanza tra i popoli. Sarà ricordato l’avv Palermo,  primo presidente del comitato di Liberazione Nazionale  brindisino ed esponente di spicco di quello stuolo di antifascisti che si opposero  per oltre venti anni al fascismo;  in Via Palestro angolo via Mazzini  (4) breve sosta dinanzi al luogo ove era ubicato lo studio dell’avv. Palermo
FRONTE NAZIONALE D’AZIONE
Comitato Provinciale di Brindisi
Verbale della prima seduta
L’anno 1943, il giorno 9 agosto, alle ore 15 pomeridiane, nello studio dell’avv. Vittorio Palermo, in Brindisi, si sono riuniti: il sig. Guglielmo Cafiero, il sig. Donato Ruggiero, l’ing. Pietro Sala, l’avv. Giovanni Stefanelli e l’avv. Vittorio Palermo, (alcuni dei quali erano diggià in intenso e quotidiano contatto da un paio d’anni fra loro ed altri elementi antifascisti pugliesi ed italiani) e, — ritenuta la opportunità di realizzare la formazione di un Comitato provinciale di concentrazione antifascista —, stabiliscono di costituire nella stessa data un primo nucleo del Comitato stesso e di allargarlo con elementi di sicura fede e di condotta patentemente antifascista che, dalla destra alla sinistra, si attengano alle direttive seguite dal Comitato Centrale del Fronte Nazionale; e particolarmente:
1°) collaborazione con il Governo di S. E. Badoglio;

2°) contributo all’opera di epurazione degli elementi fascisti o compromessi con il fascismo

3°) lotta contro il nazismo;
4°) propaganda in favore di una pace separata.
I singoli componenti di questo primo nucleo prendono specifici incarichi di avvicinare altri elementi di sicuro passato antifascista per invitare costoro a far parte del Comitato provinciale del Fronte Nazionale.
Funge da segretario ufficioso l’avv. Vittorio Palermo che fa una relazione sintetica sulla situazione politica italiana raccolta nei suoi ultimi viaggi a Bari, Roma, Milano nel giugno-luglio 1943 a seguito dei contatti presi con alcuni
esponenti (di cui fa i nomi specifici) del movimento antifascista di quelle città.
La seduta si chiude con il formale impegno di riunirsi il giorno 11 agosto.
Brindisi, 9 agosto 1943
Ilf. segretario
avv. Vittorio Palermo

volantino sequestrato in casa di Raffaele Trinchera il 10 ottobre del 1943

1943 settembre 18 Volantino – appello ai «Giovani d’Italia» per incitare a prendere le armi contro i tedeschi

5) Corso Umberto angolo via Conserva saluto ad Adriana Inglese “centralinista” della Resistenza. Questa tappa è dedicata alle donne che parteciparono alla Resistenza

“Spesso mi pongo questa domanda “se come nei film potessi fare un viaggio nel tempo e mi ritrovassi  negli anni in cui resistere, pedalare, resistere, significava rischiare la vita, io  cosa sarei con la mia bicicletta?”
Mi piace pensare che non avrei esitazione alcuna nel decidere da che parte stare e che uso fare della mia bicicletta.
Questa è per noi una tappa speciale. Sotto questa casa il 25 aprile zampilla sempre. Qui vive Adriana Inglese , centralinista della resistenza.

Con questa tappa vogliamo rendere grazie e merito al contributo che le donne diedero alla Resistenza, prima, e poi alla ricostruzione del nostro paese devastato dalla guerra dalle bombe e dalla miseria in cui il regime fascista l’aveva condotto. Le donne nella Resistenza Italiana in tutte le città le donne partigiane lottavano quotidianamente per recuperare beni di prima necessità per il sostentamento dei compagni. Vi erano gruppi organizzati di donne che svolgevano propaganda antifascista, raccoglievano fondi ed organizzavano assistenza ai detenuti politici ed erano impegnate anche nel mantenimento delle comunicazioni oltre che nelle operazioni militari. Le donne che parteciparono alla Resistenza, facevano parte di organizzazioni come i Gruppi di Azione Patriottica (GAP) e le Squadre di Azione Patriottica (SAP), e inoltre, fondarono dei Gruppi di Difesa della Donna, “aperti a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica o religiosa, che volessero partecipare all’opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione”, per garantire i diritti delle donne, sovente diventate capifamiglia, al posto dei mariti arruolati nell’esercito.
I compiti ricoperti dalle donne nella Resistenza furono molteplici,  portando il loro contributo  di genere, politico ed organizzativo e sino a cimentarsi con le armi. Particolarmente prezioso era il loro compito di comunicazione come staffette percorrendo chilometri in bicicletta, a piedi , in corriera col rischio  di essere arrestate.
Il ruolo della staffetta, era spesso ricoperto da giovani donne tra i 16 e i 18 anni, con il compito di garantire i collegamenti tra le varie brigate e  mantenere i contatti fra i partigiani e le loro famiglie;
Tante furono le donne combattenti che al fianco dei partigiani combatterono contro il nazifascismo.
Per decenni a livello storiografico ed istituzionale il contributo delle donne alla Resistenza non è stato mai adeguatamente riconosciuto, rimanendo
relegato ad un ruolo secondario, che scontava “di fatto” una visione in cui anche la Lotta di Liberazione veniva “declinata” al «maschile»
Per questi motivi si parla di Resistenza taciuta.
I dati

  • 70000 donne organizzate nei Gruppi di Difesa della Donna;
  • 35000 donne partigiane, che operavano come combattenti;
  • 20000 donne con funzioni di supporto;
  • 4563 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti;
  • 2900 giustiziate o uccise in combattimento;
  • 2750 deportate in Germania nei lager nazisti;
  • 1700 donne ferite
  • 623 fucilate e cadute;
  • 512 commissarie di guerra;
Sono le staffette che il 25 aprile 45 portano a tutti i dirigenti antifascisti a Milano l’appelloall’insurrezione del CLN Alta Italia:
Cittadini
lavoratori contro l’occupazione tedesca! Contro la guerra fascista! Per la
salvezza delle nostre terre , delle nostre case, delle nostre officine!
Manifestate per le strade sotto la bandiera del tricolore del Comitato di
liberazione, Come a Genova e a Torino , ponete ai tedeschi davanti al dilemma :
arrendersi o perire! Verso lo sciopero generale ! Viva l’insurrezione!
E l’ordine di insurrezione firmato il 24 aprile da Pietro Longo è affidato ad una donna Lina Fibbi staffetta partigiana
del comando generale delle Brigate Garibaldi  comandato da Pietro Secchia. Mai donna ebbe un compito così significativo per il nostro Paese.
Noi riteniamo che il nostro paese , che sta attraversando la più grave crisi economica e politica dal dopoguerra,  ha
ancora una volta bisogno della massima partecipazione delle donne alla sua riscossa e chiediamo che tutte le barriere che impediscono il pieno coinvolgimento delle donne  alla vita sociale e politica dell’Italia vengano rimosse come recita l’articolo 3 della Costituzione italiana dove si sancisce l’uguaglianza dei cittadini: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali”.
Ora vi presento Adriana Inglese Paloscia, attraverso un suo racconto raccolto da Francesco Gioffredi
«Lasciammo Brindisi perché tutti noi figli volevamo studiare all’Università.
Papà era nella Marina militare, chiese al ministero della Difesa il trasferimento in una città universitaria. A Roma non era possibile, ci mandarono a Genova, vivevamo dov’era la Capitaneria. Genova negli anni della guerra era bersagliata dai bombardamenti notturni. C’erano 5-6 allarmi, ci rifugiavamo nelle gallerie, il porto era avvolto dalla nebbia dei fumogeni». La famiglia Inglese non restò impassibile dinanzi allo sfregio, proprio no
.>>
Adriana e sua sorella Fernanda – giovani, belle, studentesse universitarie – decisero di sporcarsi le mani con la polvere della storia: «Aiutavamo, nel massimo riserbo, i partigiani. Io, nel cuore della notte, ricevevo una telefonata. Non sapevo chi c’era dall’altra parte, sentivo solo una voce che mi dettava un numero di telefono e poi un messaggio (ad esempio “I fiori sono alla finestra” ). Io dovevo ripetere quel messaggio al numero indicato. senza sapere chi fosse il destinatario. “I fiori sono alla finestra” , comunque, stava a indicare l’arrivo dei paracadutisti con armi e viveri».
Da brividi le missioni della sorella, che s’era guadagnata i galloni del rischio per via dell’età: «Fernanda era cinque anni più grande. Lei faceva la vera e propria staffetta: grazie a un ufficiale di collegamento, riusciva a portare ai prigionieri politici dei panini imbottiti di messaggi. Poverina: all’ingresso c’era sempre un tedesco che le accarezzava i capelli dicendole “Bella signorina”. Ha rischiato la vita sul serio.>>
Il racconto della signora Adriana ansima come un mantice quando s’arriva lì, alla Liberazione. «L’annuncio ci arrivò dai francesi, Genova era blindata. Fu un’emozione unica, commovente, vedere i partigiani arrivare in corteo con i nazisti prigionieri. Io gridavo ai tedeschi “Raus! Raus!” (ndr: in tedesco vuol dire “fuori”). Ma non dimenticherò mai i partigiani così belli col fazzoletto rosso al collo».
Pochi mesi dopo, dicembre, Adriana Inglese sarebbe diventata la signora Paloscia: treno e giù fino a Brindisi.
Grazie Adriana, centralinista della resistenza. Oggi i fiori li mettiamo noi alla tua finestra.
6)  Corso Garibaldi angolo via Rubini ( ex vico dell’orologio) sosta dinanzi al luogo dove il 1 maggio del 1922 i fascisti locali assaltarono a colpi di pistola  il corteo pacifico di lavoratori festeggianti il 1 maggio, uccidendo . Furono centinaia i lavoratori e, sindacalisti attivisti politici uccisi dalle squadre fasciste tra il 1921 e 1922
In questo luogo il fascismo brindisino svelò la sua vera  faccia : quella dell’assassinio, della vigliaccheria e dell’essere protetto da uno Stato  e da istituzioni reazionarie.In quel primo maggio del 1922  ,per celebrarlo,  le organizzazioni sindacali e i partiti socialisti e comunisti proclamarono lo sciopero generale e contro il quale  in tutta Italia i fascisti si mobilitarono, assalendo cortei ed sino a dare la caccia nelle trattorie di coloro che
festeggiavano il 1 maggio.
Narra Beniamino Andriani , antifascista socialista e sindacalista poi  vicesegretario della CGIL nel 1945:
“-Il corteo si partì dalla camera del Lavoro in via Filomeno Consiglio, aprivano il corteo i giovani socialisti e comunisti, seguiti per ordine di
anzianità dalle organizzazioni sindacali: i contadini, i muratori, i portuali, ecc.
Nel Piazzale della Stazione si presentava uno spettacolo meraviglioso di migliaia di lavoratori . Durante il comizio ci fu qualche tentativo di provocazione dei fascisti respinto dai lavoratori. Alla fine della Manifestazione il corteo fu attaccato qui in questo luogo   a colpi di
rivoltellate e si ebbero tre feriti gravi e un morto il bracciante Meoli rimasto invendicato!
I fascisti locali, dopo essersi fatti 5 mesi di carcere dorato, il giorno della marcia su Roma, il 28 ottobre uscirono trionfanti con la copertura delle istituzioni!”- Moltissime furono le violenze alla festa del lavoro il 1 maggio 1922 e che videro le camicie nere assaltare manifestazioni operaie e popolari, provocando morti e feriti da Roma, Alfonsine (Ra), Rovigo, Romagnano Sesia (No), Binanuova (Cr), Livorno, Colle di Val d’Elsa (Si), Perugia, sino ad Andria (Ba).in provincia di Bologna in un’osteria di Rivabella di Zola Predosa (Bo) i fratelli Alfonso e Vincenzo Vignoli  furono uccisi e feriti 8 loro compagni che cantavano inni socialisti. Si contarono alla fine della giornata sei morti socialisti e sei squadristi. mai, nella storia del socialismo italiano, il 1º Maggio fu più squallido e funereo di quello del 1922″.
Ma non fu un fatto isolato, poiché tra l’ottobre 1920 e l’0ttobre 1922, ben  600 lavoratori furono uccisi da fascisti a cui si aggiungono altre centinaia di lavoratori uccisi dalle forze di polizia del re e per un totale 1500 lavoratori , sindacalisti e politici di sinistra uccisi in due anni
Solo nel1921 in 10 mesi di squadrismo fascista  furono  distrutte 17 tipografie di giornali, 59 case del popolo, 119 camere del lavoro, 107 coperative, 83 leghe contadine, 8 società di mutuo soccorso, 141 circoli comunisti e socialisti, 110 circoli culturali, 10 biblioteche popolari, 28 sindacati operai, per un totale di 726 sedi di organizzazioni di lavoratori.
Soltanto nei primi sei mesi del 1922 166 lavoratori sono uccisi e 500 feriti
Cogliamo l’occasione per ricordare quanto fu determinante per l’avvento del fascismo la divisione che ci fu tra  le forze democratiche e antifasciste
nonostante che dagli strati popolari venisse l’invito all’unità d’azione  e come svincolate dai partiti nascessero in molte parti d’Italia le sezioni degli Arditi del popolo. Accusate di essere anarcheggianti e poco inclini a farsi sottomettere agli equilibrismi della politica, questa forma di difesa armata popolare, quando ebbe il sostegno corale di tutte le forze antifasciste, come nel caso di Parma, ma anche di Bari,  riuscì a dare risposte vittoriose,
ma ormai era troppo tardi e si dovette aspettare 20 anni affinché nascesse la Resistenza con il contributo di tutti i partiti antifascisti.
Anche in  Puglia in quel terribile 1922 si tentò di opporsi con le armi alla violenza fascista, come a Bari dove, nell’agosto del 1922 , per bel cinque giorni le squadre degli Arditi del popolo  difesero la città vecchia dagli assalti dei fascisti comandati dall’agrario Caradonna e dalle guardie regie,  respingendoli con morti, feriti e giungendo a fare addirittura prigionieri  ben trenta fascisti della  Decima Legio  giunti da Arpinati  e trenta guardie regie  .
Per entrare nella Bari proletaria si dovette attendere tre mesi quando con la marcia su Roma, Mussolini prese il potere e nella notte del 1 novembre 1922  fu inviata una intera divisione di fanteria con le mitragliatrici per occupare la Camera del Lavoro di Bari
21 anni dopo , il 9 settembre 1943  Bari sarà la prima grande città del Sud che si libererà dai nazifascisti con le armi, grazie al generale
Bellomo che chiamò il popolo alla difesa della città e dove giovani scugnizzi come Michele Romito scacciarono i tedeschi a colpi di bombe a mano.
Viva la Resistenza popolare e antifascista!
Ora e sempre Resistenza!”
7) Via Carlo de Marco omaggio ad un’eroe brindisino appena riscoperto: Marco Eftemiadi, nato a Brindisi, di origine albanese, di Valona e di lingua greca. Esempio della mescolanza tra culture e provenienze diverse, vero tesoro della gente brindisina , che diede la sua vita da patriota , partigiano nei GAP, al fianco degli antifascisti, impiccato insieme a ad altri 43 martiri a via Ghega nel 1944 a Trieste, la stessa città fu ucciso Vincenzo Gigante.
Franco Zaccaria parla del suo parente Marco Eftemiadi in via Carlo De Marco
Due e differenti sono le note biografiche di Eftimiadi Marco:
“Eftimiadi Marco. Nato a Brindisi, il 24 gennaio 1921 da Luca e Zaccaria Raffaella Lucrezia Gioconda in via Carlo Demarco n°1. Partigiano dal 9 settembre 1943 nella formazione GAP del IX Corpo dell’ELPJ. Viene impiccato come ostaggio, assieme ad altri 50 martiri, a Trieste, in via Ghega, il 23 aprile 1944.
Cfr. C. Ravnich, Martiri ed eroi della divisione Garibaldi, op. cit., Padova, 1950, pag. 91; Brigata d’Assalto Garibaldi – Trieste, Elenco nominativo dei caduti, c/o IFSML.”Da  Ippazio Pati Luceri
“Marco Eftemiadi studente alla facoltà di scienze economiche e commerciali dell’Università di Trieste,entrò nell’antifascismo attivo alla fine del 1942.Dopo l’armistizio del settembre 1943 non potendo come era suo vivissimo desiderio recarsi fra i partigiani in montagna a causa di una imperfezione fisica, entrò nell’organizzazione clandestina della resistenza “Fronte della gioventù ” che operava a Trieste.
Vi prestò attività intesa ed apprezzata. Collaborò con entusiasmo a giornali clandestini della resistenza nonché alla compilazione di materiale di
propaganda.
A causa di questa attività, fu arrestato nella notte del 1 marzo 1944 da una decina di militi della S.S. insieme ad altri dirigenti della resistenza e rinchiuso nelle segrete del comando S.S. di piazza Oberdan e successivamente nelle carceri del Coroneo.
Sopportò eroicamente le feroci torture cui tu sottoposto durante la prigionia e non tradì i compagni di lotta. Fu impiccato dai nazisti il 23 aprile 1944 nel palazzo Rittmayer di via Ghega.” Da: IRSML Trieste, Ufficio Storico, documento n° 2825 del 07. 11. 1952
commemorazione in via Carlo De Marco il palazzo dove è nato Marco Eftemiadi
8) Lungomare, giardinetti del porto  tappa conclusiva:  lancio di fiori in mare e omaggio ai combattenti per la libertà  e che in tanti diedero la vita in Yugoslavia, Albania , Grecia. Ricorderemo come su quel molo Vincenzo Gigante ed altri giovani socialisti ,  antimilitaristi e pacifisti  nel 1920 condussero l’ agitazione politica tra le truppe che andavano a reprimere il popolo albanese in rivolta. Una testimonianza che conferma lo spirito di
solidarietà e fratellanza tra popoli che ha sempre contraddistinto la nostra città . Uno spirito riconfermato
Lungomare Brindisi:
Ha un significato di alto valore simbolico la tappa su questo  lungomare,  luogo dove la città volge lo sguardo ad Oriente verso popoli e culture
differenti ma con i quali non è mai mancato dialogo, solidarietà  e senso di comune fratellanza, attraverso azioni esemplari della popolazione brindisina, quali l’accoglienza dei 20000albanesi nel marzo 91 o l’ostinata solidarietà ad ogni 28 marzo alle vittime  della nave albanese Kater I Rades.
Ma  anche altri episodi ci spingono qui a rendere omaggio con un lancio di fiori in mare e la lettura di  poesie. Su questo molo  90 anni fa ,  i giovani socialisti brindisini il 29 giugno  del 1920 distribuirono  volantini antimilitaristi e anticolonialisti, e animati di spirito internazionalista incitarono
all’obiezione di coscienza  le truppe italiane che stavano imbarcandosi alla volta dell’Albania  per  reprimere il popolo albanese in rivolta contro l’occupazione italiana  e che reclamava l’indipandenza. Tra quei giovani socialisti vi erano semplici operai come il 17enne  Masiello Annunziato Arcangelo o  il 19enne Vincenzo Antonio Gigante .
L’opera  di agitazione e propaganda contro la guerra , al grido di “ non un fucile si deve rivolgere contro altri proletari “ fu così efficace che  Brindisi fu uno dei tre luoghi ( dopo Trieste ed Ancona ) dove le truppe italiane si  ammutinarono, al fianco  dei lavoratori portuali scesi in sciopero,  giungendo sino ad opporsi con le armi ai carabinieri e agli ufficiali.
Nello scontro un militare morì  e due furono feriti e  64 giovani militari degli arditi, le truppe di assalto,  finirono dinanzi alla corte marziale accusati di diserzione.
Quell’episodio fu rilevante per il futuro politico di Gigante e la sorte volle che morisse , da partigiano ucciso dai nazifascisti , proprio a Trieste la città che in quel 1920 con lo sciopero dei portuali diede il via alla protesta contro la guerra al popolo albanese. Un destino nel quale Gigante  fu accomunato ad un altro brindisino, di origine albanese, Marco Eftemiadi, anch’egli partigiano anch’egli ucciso dai nazisti a Trieste.
Su questo molo  23 anni dopo approdarono il 25 settembre del 1943  i pochi militari  gravemente feriti,  superstiti della divisione Perugia fuggiti dai porti albanesi,sotto le bombe degli Stukas.Dei loro commilitoni vogliamo ricordare il generale Ernesto Chiminello e  i 120 ufficiali e sottufficiali che avendo resistito con le armi ai tedeschi furono giustiziati, i loro corpi bruciati e poi gettati in mare. Una sorte simile la subirono centinaia di nostri militari nell’isola di Kos, di cui i familiari non hanno mai potuto trovare i resti.
Una fine che li accomuna ai martiri di Cefalonia, i 20.000 marinai italiani che con il loro sacrificio sancirono la rinascita  di quell’Esercito di liberazione nazionale che, partendo dalla Puglia,. al fianco degli alleati e dei partigiani, liberò l’Italia dal nazifascismo
Tra tanti militari italiani  che dopo l’8 settembre entrarono a far parte della resistenza, yugoslava albanese, greca,  vogliamo ricordare i  tremila  in gran parte superstiti  proprio della divisione Perugia  che, dando vita al “Battaglione Gramsci per un anno e mezzo affrontarono in armi i fascisti italiani e i nazisti insieme ai partigiani albanesi, partecipando nel novembre del 1944 alla liberazione di Tirana.  Ma  vogliamo ricordare che  ventimila disertori italiani trovarono rifugio tra  poverissime famiglie albanesi che  che li sfamarono e li nascosero  ai rastrellamenti tedeschi.
Con  questo lancio di fiori in mare vogliamo rendere omaggio e dire  un grazie a tutti coloro  italiani, albanesi, greci,  yugoslavi che  con la loro opera  dall’altra sponda di questo mare ci hanno reso liberi e ci hanno insegnato che il destino e il cammino verso la libertà ed il progresso è comune a tutti gli esseri umani ed è con un appello all’uomo , leggendo la poesia  “-Prima di tutto l’uomo”- del poeta turco Nazim Hikmet, scritta in un carcere.
Con questo appello all’umanità , di condanna della violenza, del carcere come negazione di ogni diritto , del razzismo e di ogni forma di
pregiudizio e di xenofobia che concludiamo il nostro percorso antifascista  cittadino del 25 aprile.
Non vivere su questa terra come un estraneo
o come un turista della natura.
Vivi in questo mondo come nella casa di tuo padre:
credi al grano  alla terra al mare ma prima di tutto credi nell’uomo.
Ama le nuvole le macchine   i libri  ma prima di tutto ama l’uomo.
Senti la tristezza del ramo che si secca
dell’astro che si spegne
dell’animale ferito che rantola
ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell’uomo.
Ti diano gioia tutti i beni della terra:
l’ombra e la luce ti diano gioia  le quattro stagioni ti diano gioia
ma soprattutto  a piene mani ti dia gioia l’uomo!
(ultima lettera al figlio)