Bari 28 luglio 1943, eccidio di via Niccolò dell’arca, studenti e prof in piazza all’alba della Resistenza

 

di VITO ANTONIO LEUZZI

 

Le vicende drammatiche del 28 luglio 1943 a Bari, dove si verificò una delle prime stragi dell’Italia all’indomani del crollo della dittatura, possono far comprendere i pesanti condizionamenti degli apparati dello Stato nel difficile processo di transizione dal fascismo alla repubblica. Ad essere colpiti, in via Niccolò dall’Arca, da una violenta azione repressiva, furono in particolare molti studenti universitari e medi, diversi insegnanti, tra cui due maestri elementari: Giuseppe Gurrado e Gennaro Selvaggi – noti per l’avversione al fascismo – assieme a giovani apprendisti operai e semplici cittadini. Ciò che colpisce, nonostante il tempo trascorso, sulla base anche di nuove testimonianze, è il ruolo della scuola. Un gruppo combattivo di docenti non aveva piegato la schiena al generale conformismo ed era riuscito a non far dimenticare del tutto la parola “libertà”.

 

«Dai discorsi degli insegnati capivamo che le cose non andavano bene», sostiene il dottor Camillo De Luca, testimone dell’orrendo massacro in via Nicolò dall’Arca, dove morì tra gli altri, Fausto Buono, studente universitario, suo compagno di studi al liceo classico Orazio Flacco. «Non posso dimenticare – aggiunge De Luca – le lezioni del professor Fabrizio Canfora, docente di filosofia che ci affascinava per la serietà ed il rigore con cui affrontava e attualizzava i grandi filosofi del passato. Anche gli altri docenti ci sorprendevano per la loro diversità, in particolare la supplente di Italiano, la professoressa Maria Papalia (sorella dell’avvocato Giuseppe Papalia, uno dei punti di riferimento dell’opposizione al regime, ndr) e la professoressa di Storia dell’arte, Anna Macchioro, moglie del professor Ernesto De Martino (insegnante di Filosofia al liceo scientifico Scacchi ed esponente di rilievo del movimento liberalsocialista). Diversi altri docenti tra cui il professor Perna – sostiene De Luca – non nascondevano le loro idee manifestando la loro contrarietà alle politiche guerrafondaie e liberticide di Mussolini».

 

Il liceo-ginnasio statale di Bari, grazie a queste minoranze critiche, rappresentò un baluardo della cultura avversa al regime e per i profondi legami con l’antifascismo cittadino che trovava in Benedetto Croce, Tommaso Fiore e la casa editrice Laterza solidi punti di riferimento. Sparando al altezza d’uomo un reparto dell’esercito fermò il corteo degli antifascisti che si dirigevano al carcere dopo che si era sparsa la notizia della imminente scarcerazione dei numerosi prigionieri politici. Sul pacifico corteo si sparò anche dalle finestre della sede della federazione del Partito nazionale fascista. Fra i testimoni dell’eccidio, si ricordano lo scrittore Vito Maurogiovanni, il giornalista Antonio Sorrentino e il giovanissimo Paolo Laterza.

 

In questo contesto si spiega anche la durissima repressione dopo il massacro (20 morti e circa 50 feriti) della tarda mattinata del 28 luglio di 68 anni fa. La Questura di Bari nella notte tra il 28 ed il 29 luglio eseguì il fermo di moltissimi giovani, tra i quali Enrico Ciccotti, Ugo Santalucia e Franco Sorrentino che aveva partecipato a quella manifestazione assieme a tanti altri ragazzi, scampando alla strage. Destò impressione soprattutto l’arresto di Luigi de Secly, redattore capo della Gazzetta per il suo articolo di fondo, intitolato «Viva la libertà», nel quale tra l’altro affermava: «Oggi, sì, siamo uomini liberi, ordinamente liberi: uomini che partecipano volontariamente al grande movimento nazionale e si sentono fieri di essere protagonisti della nuova storia».

 

 

 

 

 

 

27 LUGLIO 2011

 

 

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Bari 1943, il silenzio sulla strage di luglio in una nuova testimonianza

 

 

 

 

 

di VITO ANTONIO LEUZZI

 

La messa in onda nelle scorse settimane del documentario Tragico e glorioso 1943, nel programma Rai «Mille papaveri rossi», richiama con forza le vicende storiche relative sulla cacciata di Mussolini e sulla sua sostituzione con Badoglio, punto di forza della restaurazione autoritaria sotto il segno della monarchia. Si tratta di uno dei momenti più drammatici della storia nazionale post-unitaria, che segna l’epilogo della dittatura e di una guerra disastrosa voluta dal fascismo. «Mille papaveri rossi» ripropone, tra l’altro, un’inchiesta dei primi anni Settanta sulle drammatiche vicende della strage del 28 luglio 1943, in via Niccolò dall’Arca a Bari. Nel capoluogo pugliese due giorni dopo la liquidazione di Mussolini e alla sua sostituzione con il generale Badoglio, un reparto dell’esercito e alcuni individui stabilitisi nell’edificio della federazione del partito nazionale fascista, sulla base delle disposizioni draconiane emanate da Roatta, capo di stato maggiore dell’esercito, aprirono contemporaneamente il fuoco su un corteo di circa duecento persone, formato prevalentemente da studenti medi ed universitari, da insegnanti e da operai.

 

Il bilancio di quella sparatoria fu di venti morti – ma il loro numero effettivo non fu mai appurato – e di circa cinquanta feriti. I manifestanti, pacificamente, al grido di «Viva la libertà», si apprestavano ad andare incontro ai numerosi prigionieri politici, arrestati alcuni mesi primi, nell’operazione contro il «Movimento liberal-socialista », tra i quali i filosofi Guido Calogero, Guido de Ruggiero, il prof. Tommaso Fiore, il giudice Michele Cifarelli e numerosi giovani intellettuali della città. Bari negli anni del regime fu uno dei capisaldi dell’opposizione intellettuale al fascismo per la presenza della casa editrice Laterza, di Benedetto Croce e in particolare di Fiore, che era riuscito a stringere intorno a sé – e ai figli Vincenzo, Vittore e il giovanissimo Graziano, che morirà in quella strage del 28 luglio – docenti liceali, studenti universitari e medi.

 

Da una recentissima testimonianza del dott. Camillo De Luca, che aveva terminato il liceo all’«Orazio Flacco» e si era iscritto alla facoltà di Medicina, si evidenziano nuovi particolari su quella manifestazione soffocata nel sangue. «Quando arrivammo in Piazza Umberto all’altezza del Cinema e girammo l’angolo (via Niccolò dall’Arca) trovammo la strada sbarrata dai soldati italiani schierati. Nessuno ci avvertì e all’improvviso spararono all’altezza d’uomo. Io mi ritrovai per terra vicino al prof. Fabrizio Canfora, mio docente di filosofia al liceo, che fu raggiunto da alcuni proiettili. Mi rialzai subito. Tutti correvano. Ho dato soccorso ai feriti. Si trovò a passare una camionetta con soldati tedeschi che prestarono aiuto e borbottarono qualcosa contro i sodati italiani; non capivo; erano, probabilmente, espressioni di disapprovazione. Anch’io fui raggiunto da una piccola scheggia».

 

Gli apparati dello stato ereditati dal passato regime riuscirono per circa un anno con la censura e con una inaudita repressione a tenere nascosto l’eccidio; furono, infatti, arrestati e denunciati ad opera della questura, Luigi de Secly , redattore-capo della «Gazzetta del Mezzogiorno» assieme a diversi altri manifestanti, tra cui il prof. Fabrizio Canfora, Mimì Loizzi e Carlo Colella; mentre i feriti furono piantonati nei diversi ospedali cittadini. Le vittime furono trasportate nottetempo al cimitero in un clima diffuso di intimidazione e paura. Il questore del tempo, Pennetta, che nella metà degli anni Trenta aveva ricoperto incarichi rilevanti nell’opera di controllo degli antifascisti, ebbe un ruolo non secondario nell’insieme dell’opera repressiva. La notizia della strage solo dopo settimane si diffuse anche tra gli esuli antifascisti, tra cui Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi, suscitando impressione per la violenta restaurazione autoritaria tentata da Badoglio e dalla monarchia. Canfora, nella raccolta di scritti Tra reazione e democrazia (1945), affermò: «L’ordine preciso era di soffocare ogni partecipazione popolare a quel senso unanime di gioia e liberazione […]. La monarchia voleva, rimuovendo Mussolini, scagionarsi dalle proprie responsabilità e, come fosse stato il suo innocente errore, riprendere la strada di venti e più anni prima e rinserrare il Paese nella sua ossatura statale paternalistica e conservatrice».

 

 

 

 

 

 

 

 

26 LUGLIO 2011