le giornate di Matera

La prima ribellione avviene a Matera, città alta della Basilicata, metà sul pianoro, attorno alla torre diroccata, metà nel vallone precipite che ha pareti di tufo, la Matera dei Sassi, tutta abitata però da buona gente, piccola di statura, che prima lavorava per la chiesa e ora, dopo il 1860, per i baroni diventati padroni delle terre tolte alla chiesa: comunque esclusa dalla storia, salvo che in queste poche ore gloriose di ribellione. Matera è la prima insurrezione cittadina dell’Italia occupata dai tedeschi: i legami cittadini, personali vi sostituiscono quelli politici, questa è la ribellione della gente che si conosce per nome in una piccola città.

L’8 settembre a Matera c’è un piccolo presidio con un comando di sottozona e un battaglione allievi avieri. All’annuncio dell’armistizio gli ufficiali, dopo una assise burrascosa, si dividono: alcuni partono per il Nord dietro il comandante Meloni, ex seniore della milizia; resta a Matera la maggioranza. Al comando della sottozona c’è il professor Francesco Nitti, ufficiale di complemento, che ha nascosto armi e munizioni. Ora, prima che arrivi l’America, la retroguardia germanica inferocisce, da nemico che parte e sa che non tornerà. Il tedesco brucia i carri-merci della ferrovia lucana e due automotrici; o va per la città povera, entra nei poveri negozi, ruba ciò che resta a questa gente buona, umile, però capace, al fondo delle umiliazioni,

di reazioni furenti come il tedesco non immagina. Fra il 18 e il 20 settembre l’occupante ha preso dodici ostaggi, li ha chiusi nella caserma della milizia fascista che è fuori città sulla strada per Potenza, e ha minato l’edificio. Ogni tanto un nazista entra e minaccia: «Vostri amici sparare su di noi, non è buono». Due mitragliatrici sono piazzate davanti all’edificio.

Ma il 21 è difficile tenere quieta Matera, già si odono il cannone e la mitraglia del combattimento che si avvicina e si sa quale ne sarà l’esito, basta guardare i tedeschi che passano per la città sulle loro camionette, stanchi, stravolti. Perciò la gente non sa stare in casa anche se ha paura. E verso le 17 si accende l’insurrezione. Accade in via San Biagio nella oreficeria Caione. Il titolare è lontano, in bottega ci sono la signora Michelina, certi suoi parenti, alcuni soldati tedeschi e italiani. I tedeschi si fanno aprire le vetrine, intascano anelli e orologi. « Per ricordo» dicono. Gli italiani li guardano. Quando stanno per uscire con il bottino due italiani tirano fuori la rivoltella e sparano. Un tedesco cade nel negozio, l’altro ferito esce in strada ed

è finito con una bomba a mano. Ne trascinano il cadavere fino alla «scaricata» che scende ai Sassi, ma non serve nasconderlo, l’allarme è stato dato, i tedeschi accorrono. Sparano gli ex militari che si sono tenuti un’arma in casa, e i civili a cui Francesco Nitti distribuisce fucili e munizioni. Si combatte nel rione San Biagio, attorno alla piazza Grande, in via Cappelletti. Nell’eccitazione gloriosa dell’ora un uomo tranquillo come Emanuele Manicone, quarantaquattro anni, padre di famiglia, esattore della Elettrica Lucana, corre per le vie del

centro urlando la notizia: «Hanno ammazzato due tedeschi!». Poi vede un maresciallo nazista da un barbiere, gli si getta contro con un coltello, lo ferisce, lo disarma; eccolo andare alla caserma delle guardie di finanza che è lì vicino, chiamare i militi, guidarli al combattimento e morire nelle braccia degli amici, colpito da una raffica. La città, senza eroi risorgimentali, trova nell’insurrezione il suo eroe. Ora la battaglia si spezza e si allarga. I tedeschi vanno alla cabina di distribuzione dell’elettricità; minano gli impianti, fucilano due ingegneri della Lucana. Alle 18 si ode il boato: è saltata la caserma della milizia con gli ostaggi, solo uno dei dodici è scampato.

La notte trascorre in preparativi. Il tedesco ucciso davanti all’oreficeria e trascinato alla «scaricata» è stato coperto con un lenzuolo bianco. Ci ha pensato una povera vecchia che ha figli lontano sotto le armi, hanno sentito che diceva, coprendolo: «Povero infelice, era anche lui un figlio di mamma. Ma perché tutto questo?». La Resistenza, da noi, nasce anche perché la guerra finisca. All’alba si aspetta un attacco tedesco. Arriva invece un soldato canadese, in motocicletta, sulla spalla sinistra ha il distintivo del Black Cat, il suo reggimento. Lo portano in trionfo al municipio. Nell’insurrezione hanno combattuto persone di ogni ceto. Brava gente, umile, capace di battersi come l’Herrenwolk nelle poche ore in cui è stata libera di battersi. Poi torna il sonno su Matera, tornano i reali carabinieri: uno arresta il contadino Di Cuia, fra i più coraggiosi durante l’insurrezione, perché ha tenuto in casa delle bombe a mano.

Matera non è l’unico fatto d’arme e di sangue della Lucania. Ci sono dei morti e dei feriti anche a Rionero in Vulture, il 16 e il 24 settembre. Ma bisogna distinguere fra quelli del 16 e quelli del 24. I primi non sono ribelli ai tedeschi, ma alla fame. Danno l’assalto a un magazzino militare, rischiano la morte per una coperta, per un po’ di cibo. Fra i tedeschi che cercano di allontanare la folla, che sparano, se ne trova anche uno che aiuta una contadina a portare via un sacco di farina. Invece i morti e i feriti del 24 settembre appartengono alla Resistenza, vittime di una rappresaglia, come tanti altri nella Resistenza. A Rionero il tedesco ha per compagni di strada, alleati nella disfatta, i paracadutisti della Nembo, comandati dal tenente Sala. Un tedesco e un paracadutista passano davanti alla casa di un contadino, l’italiano ruba una gallina, una bimba si mette a gridare, il padre esce armato, spara un colpo di rivoltella, ferisce leggermente il paracadutista, è ferito gravemente da due colpi. Scatta il meccanismo della rappresaglia: tedeschi e fascisti arrestano diciassette persone, le portano sulla piazza, ci trascinano anche il contadino ferito, Pasquale Sibilia. Uno si getta in ginocchio: «Perdono, sono tornato a casa solo da due giorni». Quelli della Nembo gli gridano: «Nel nome del Duce non c’è perdono per nessuno». L’indomani solo i parenti possono seguire la sepoltura, i diciotto vanno al cimitero sopra il carro della spazzatura. Mentre passa il funerale il capo delle guardie municipali è in un bar a brindare con tedeschi e fascisti: il custode della proprietà e dell’ordine tiene mano alla strage pur di rispettare la proprietà e l’ordine; stupito, poi, dell’odio popolare.

L’Italia collaborazionista ne conoscerà a migliaia come lui.

I diciotto sono stati fucilati il 24: da tre giorni le avanguardie alleate sono a Eboli, a Napoli si prepara l’insurrezione.

 

 

Da: Giorgio Bocca storia dell’Italia partigiana settembre 1943- maggio 1945 -Le ribellioni del Sud