I GRUPPI COMBATTENTI ITALIA ,Un fallito tentativo di costituzione di un corpo di volontari nell’Italia Meridionale (settembre-ottobre 1940)

IL MOVIMENTO di LIBERAZIONE in ITALIA

RASSEGNA BIMESTRALE di STUDI E DOCUMENTI ANNO 1 955 –

FASC. 1-2

N. 34-35

 

A CURA DELL’ISTITUTO NAZIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE IN ITALIA

MILANO

 

 

Claudio Pavone

 

I GRUPPI COMBATTENTI ITALIA

 

Un fallito tentativo di costituzione di un corpo di volontari nell’Italia Meridionale (settembre-ottobre 1940)

 

Del tentativo fatto in Napoli nel settembre-ottobre 1945 di costituire un corpo di volontari italiani per la guerra contro la Germania, testimonianza principale sono state finora le pagine del Diario di Benedetto Croce, che della impresa fu fra i primi ideatori (1). Non ci sembra inutile, ora che è possibile valerci anche di altre fonti, tentare di ricostruire in modo più completo l’episodio, anche per dissipare i dubbi che sui motivi del fallimento affiorano nel Diario del filosofo napoletano. Nel corso, infatti, di un lungo sfogo sulle disillusioni che la politica riserba a lui, stato sempre dubbioso delle proprie capacità in quel campo, sfogo confidato alle carte del suo diario il 13 novembre, quando i volontari erano già stati sciolti da

una quindicina di giorni. Croce si domanda se il fallimento della iniziativa da lui patrocinata sia stato dovuto agli alleati, oppure al re e a quelli che gli stanno intorno, oppure ancora alla poca attività o capacità del generale Pavone che era stato scelto come comandante (2). Il 24 dicembre Croce torna ancora col pensiero ai volontari e confessa che del fallimento gli

« sono rimaste oscure le cagioni, e forse furono di diversa origine ma convergenti. Certo vi s’immischiarono anche zelanti agenti monarchici, e qualcuno fu da me incontrato, e molte false notizie furono diffuse » (3).

Infine, nelle note relative ai giorni dal 21 marzo al 1° aprile 1944. Croce ricorda ancora con rimpianto l’occasione perduta in ottobre, quando i volontari accorrevano con entusiasmo e rimanevano delusi non trovando chi fosse in condizioni di accoglierli e ordinarli : e ancora una volta accenna all’» atteggiamento tenuto » e alla « azione spiegata dal governo regio, diffidente per gli spiriti repubblicani che erano nei più di quei volontari » (4).

I primi suggerimenti di costituire legioni volontarie combattenti con bandiera italiana accanto agli alleati erano stati dati al generale americano William Donovan, capo dell’O.S.S. (Office of Strategie Service), da Raimondo Craveri e Pasquale Schiano al campo di Pesto (5) e, subito dopo, da Benedetto Croce il 22 settembre a Capri. A una domanda di Donovan sullo stato d’animo degli italiani Croce rispose che essi erano ansiosi di poter contribuire alla liberazione della propria terra combattendo accanto alle armate alleate (6).

La richiesta di Croce cadeva in un momento in cui la situazione italiana si presentava ancora poco stabilizzata e ricca di incognite. Gli alleati stentavano a districarsi dalla posizione in cui si erano cacciati col difficile sbarco di Salerno, mentre lo Stato italiano, sconquassato dagli eventi dell’8 settembre, appariva in amplissime zone dello stesso territorio meridionale come qualcosa sulla cui semplice sussistenza era lecito il dubbio. Questa sensazione trovava un terreno particolarmente favorevole nell’animo di coloro che, dalla rabbia impotente sofferta nei giorni susseguenti all’armistizio, erano indotti a trarre la conclusione, frutto di sdegno morale prima ancora che di riflessione politica, che monarchia e Badoglio non dovessero mai più riaversi dallo spaventoso collasso. I giovani che avevano ben presto cominciato ad affluire nel Mezzogiorno, attraversando con grave rischio le linee e reduci, magari, dalla sfortunata difesa di Roma, o quelli che avevano partecipato alle vittoriose quattro giornate di Napoli durante le quali non si era vista traccia di generali, trovavano strana e indisponente la pretesa del governo di Brindisi di costituire l’unico centro di vita del Paese, l’unica autorità attorno alla quale raggrupparsi per organizzare la lotta contro i nazifascisti- D’altronde, cosa era stato possibile vedere dell’atteggiamento governativo in quei primi giorni di « regno del sud »?

Badoglio, nel suo proclama del 15 settembre, aveva oscillato fra il bisogno, inesistente agli occhi degli antifascisti, di giustificare la lotta contro i tedeschi come provocata dall’iniziativa di questi ultimi (« concluso l’armistizio, era nostra intenzione di deporre le armi e dì astenerci da atti di ostilità contro chiunque »), e un ottimismo di maniera che doveva apparire offensivo più che stimolante (« quando un popolo e truppe formano un solo blocco di animi e di armi, un solo fronte e una sola forza, essi sono invincibili »).

L’invito, che seguiva, ad adoperare l’«arma terribile della guerriglia » (« darsi alla macchia, tagliare le comunicazioni, far saltare le comunicazioni e i depositi, gettarsi addosso ai mezzi e agli uomini isolati ») non poteva non apparire, data la provenienza, poco convincente (7). Di irrimediabile goffaggine doveva poi essere l’impressione suscitata dal discorso del 24 settembre del re da radio Bari in cui, dopo aver parlato delle « nostre valorose truppe che con rinnovato entusiasmo combattono per scacciare dal sacro suolo della Patria la furia devastatrice dell’inumano nemico della nostra razza e della nostra civiltà », e dopo aver affermato che «l’eroica aviazione è qui riunita », Vittorio Emanuele esprimeva la fiducia nella immancabile vittoria contro il « secolare nemico » mercé il valore delle truppe. la fedeltà delle popolazioni e «il reale poderoso apporto delle forze alleate » (8).

« Nulla era cambiato fra i militari » : questo giudizio contenuto nell’ultima lettera di Giaime Pintor (9), accorso in un primo momento, come tanti altri, a Brindisi piena di ufficiali in massima parte chiaramente fascisti, sintetizza bene l’impressione radicatasi nell’animo di coloro che consideravano primo dovere organizzare la lotta armata contro i tedeschi e i fascisti. Doveva quindi sgorgare del tutto naturale l’idea di dar vita a corpi di volontari indipendenti dalla vecchia organizzazione militare.

Il ricorso all’armamento della popolazione civile, del resto, era stato proposto fin da prima dell’8 settembre da esponenti dei partiti politici antifascisti che avevano previsto con lucidità quello che sarebbe stato lo sbocco inevitabile della situazione italiana. Ma nulla si era potuto ottenere, che la diffidenza verso il popolo in armi l’aveva in definitiva avuta vinta su ogni altra considerazione (10).

Verificatosi il crollo dell’8 settembre, fu proprio in Puglia, nelle « provincie del re », che avvennero i primi tentativi di organizzare un volontariato. A Bari veniva affisso un manifesto, a firma di esponenti comunisti, socialisti, democristiani e del partito d’azione, in cui sì chiamavano i cittadini alle armi annunziando l’apertura presso il Fronte Nazionale d’Azione,dell’arruolamento per la guerra ai tedeschi. In pochi giorni sembra si radunassero quattro o cinquecento giovani, guardati con sospetto dalle autorità britanniche e italiane, tanto che il questore Pennetta fu dell’opinione che l’arruolamento turbava l’ordine pubblico, prese posizione contro di esso e fece fermare per alcune ore il socialista Larecchiuta e l’azionista Lapriora (11).

Il Degli Espinosa» da cui traiamo queste notizie» ci narra inoltre di un suo colloquio a Bari, in ottobre, con il capitano inglese Robertson. Il Robertson disse che « i volontari erano numerosi, ma nella grande maggioranza non volevano arruolarsi nell’esercito regolare; d’altra parte sarebbe stata una pretesa mostruosa chiedere al governo inglese, già tanto impegnato ad organizzare il proprio, di mettersi ad organizzare un esercito per l’Italia. Ne l’esercito inglese poteva incorporare formazioni irregolari italiane, come invece facevano gli americani, perchè l’esercito inglese non era abbastanza democratico. Infine, accentuando il sorriso, disse che giorni prima, per evitare conflitti nelle retrovie con i carabinieri del Badoglio, il generale Montgomery li aveva fatti portare via » (12).

Fin dai primi momenti si delinea così la chiara ostilità contro il volontariato da parte del governo Badoglio, che in esso vede innanzi tutto un fenomeno atto a gettare discredito sulle già tanto scosse istituzioni militari, fondamenta del suo potere (13). La diffidenza in questa direzione di Badoglio e dell’ambiente militare era tale da scoraggiare in seno stesso alle

poche forze armate rimaste in piedi ogni volontariato per la partecipazione attiva alla lotta contro i tedeschi (14).

Il tentativo che aveva avuto così scarsa fortuna in Puglia, nell’unica zona in cui il governo Badoglio faceva in qualche modo sentire la sua presenza e che era sottoposta alla occupazione militare inglese, doveva sul momento sortire migliore effetto nella zona di Napoli, che si trovava sotto controllo americano e poteva beneficare della presenza di un nucleo di autorevoli antifascisti.

L’iniziativa di Croce ebbe infatti rapidi sviluppi. Il giorno dopo il ricordato colloquio di Capri il generale Donovan inviava al comandante della quinta armata, Clark, un promemoria intorno alla organizzazione degli Italian Operational Groups for Employment with Allied Forces (15). Il promemoria è importante non solo perché pone le basi per la formazione del corpo volontari, ma perche è redatto con uno spirito di comprensione verso il significato democratico e italiano dell’iniziativa che, come vedremo, verrà poi rapidamente attenuandosi fino a scomparire. Non che questo spirito sgorgasse tutto spontaneo dall’animo di Donovan: egli infatti in un primo momento aveva fatto capire di pensare più che altro al reclutamento di alcuni commandos e di informatori: ma gli italiani che trattarono con lui riuscirono, spiegando grande tenacia, a fargli accettare, almeno parzialmente e almeno nelle formulazioni adottate, il loro punto di vista (16). Che Donovan si inducesse a tanto non è cosa da passare sotto silenzio, dato che egli era amico personale di Roosevelt (17), e come tale vicino alla visione che dei fini di guerra aveva il presidente americano (18).

Donovan che, stando alla testimonianza di Massimo Salvadori, ci teneva che ad appoggiare i volontari fossero soltanto gli americani (19), loda nella sua lettera l’atteggiamento antifascista di vecchia data di Croce, e dichiara di avergli chiesto consiglio circa i mezzi per creare un moto unanime fra gli italiani, atto a far rinascere in essi il rispetto di sé medesimi. La pronta

risposta di Croce, che chiedeva la formazione di volontari che combattessero con propria bandiera a fianco degli alleati, era senza esitazioni fatta propria da Donovan, che la dichiarava un « punto focale » per risolvere la questione italiana. Il generale accennava anche alla necessità di istruire i volontari sui metodi della guerra « irregolare » : ed è questo il punto

che velava l’equivoco che determinerà, sebbene non da solo, il fallimento di tutta l’impresa. Donovan faceva infine proprio anche il suggerimento di Croce di affidare il comando dei volontari al generale Giuseppe Pavone, che Croce aveva definito « di vecchia famiglia patriottica e liberale del Mezzogiorno » e che ora il generale americano presenta come provato antifascista, con un eccellente passato nella prima guerra mondiale, e uomo di reputazione e di carattere.

In realtà il generale Pavone era già entrato per suo conto in rapporto con gli americani, sbarcati vicinissimo alla sua residenza. E, poiché le deficienze personali di Pavone andranno annoverate fra le cause concomitanti della cattiva riuscita del tentativo (abbiamo visto che lo suggerisce anche Croce) (20), sarà bene dir subito brevemente come egli fosse uomo valoroso e onesto, ma alquanto all’antica sia per formazione morale che per impostazione tecnica (21). Crispiano, carducciano, massone, amico di D’Annunzio, aveva avuto la sua parte di responsabilità nell’impresa di Fiume quando, commissario a Volosca, era stato fra quelle autorità che avevano chiuso gli occhi sull’azione dei legionari. Incline in un primo momento anche al fascismo, se ne era poi sempre più staccato, soprattutto in virtù del vigoroso moralismo che lo animava, fino a che. venuto in violento urto in Somalia con Graziani, e tradito da un fuoruscito provocatore col quale si era epistolarmente confidato, aveva posto termine alla sua carriera. Era entrato negli ultimi tempi in contatto con il partito d’azione, e si

era fatta la fama di essere uno dei pochi generali antifascisti e repubblicani (22); ma la sua preparazione politica era rimasta alquanto approssimativa.

Il 15 settembre Raimondo Craveri aveva scritto a Pavone, a nome di « Italia Libera che il suo contributo sarebbe stato prezioso per la lotta contro i tedeschi, e che questa era pure l’opinione di Croce (23). Pavone aveva avuto inoltre in quei giorni colloqui con il generale americano Lange, col tenente colonnello Kenneth Mann e con altri ufficiali alleati. Non gli

giunse dunque inaspettato l’invito ad assumere il comando dei volontari.

Il 23 settembre si ebbe cosi un colloquio al campo di Pesto fra il generale Donovan. il generale Pavone, il colonnello Huntington (capo dell’O.S.S. per l’Italia), il maggiore Munthe (figlio di Axel, ufficiale dell’esercito inglese, servizi di informazione), il capitano Sylvester (cioè Massimo Salvadori, anch’egli ufficiale dei servizi di informazione britannici) e Craveri (24). Donovan apparve a Pavone, cui mostrò il promemoria preparato per Clark, uomo di «autorità e sicurezza », di « spirito pratico e fattivo» : a lui Pavone parlò con molta franchezza e dignità. « Dissi e ripetei» cosi si legge nel suo diario « che non avrei mai combattuto e servito che sotto la bandiera italiana (io non sono Graziani!). Che io tenevo presente di essere loro vincitori ed io un vinto per quanto personalmente non avessi colpa di ciò. Ho detto questo per distinguermi da tutti i troppo zelatori del vincitore, oltre certo limite. Il generale rimase un po’ sorpreso, poi mi approvò» .

Il giorno successivo, 24 settembre. Pavone, Tarchiani, Cianca e Craveri si recarono a Capri da Croce, dove trovarono anche Schiano (25). Fu deciso di costituire un comitato provvisorio col nome di Fronte Nazionale della Liberazione e di inviare in merito una lettera a Eisenhower (26). Secondo quanto scrive Pavone sarebbe stata decisa, veramente, la formazione di due comitati: uno politico, allargabile appena possibile, come fu scritto anche a Eisenhower, con rappresentanti di tutte le forze politiche ostili al fascismo (27), e uno più ristretto, di tre persone, per tenere i contatti con il comando americano, e che risultò composto di Croce, Tarchiani, Pavone (quest’ultimo aveva proposto Cianca). Croce parla invece di un solo cornitato, e di un unico « comitato esecutivo », composto dai tre anzidetti più Craveri, si parla pure nella lettera a Eisenhower, la quale faceva propri i punti fissati da Donovan nel suo promemoria a Clark. La lettera fu firmata da Croce e da Pavone (28). Questi racconta che, quando si trattò di firmare, intese Craveri dire che, se lui non avesse firmato. Croce non voleva inviare la sola sua firma. « Troppo onore! » commenta Pavone te «…o troppa diffidenza? Rovina d’Italia! Io dissi: è la mia sentenza di morte? Ma se c’è la firma del Senatore firmo senz’altro ! ». L’aneddoto, pur tenendo conto del carattere un pò ombroso di Pavone, mostra il desiderio di Croce e dei « politici » di impegnare la firma di un generale, per il momento di fronte ai comandi alleati, e poi di fronte all’opinione pubblica e al governo italiani ; ma rivela anche l’emozione e quasi il timore con cui quegli uomini,poco usi alle decisioni politiche o da anni disavvezzi ad esse, si accingevano, non senza improvvisazione, ad un atto che nelle loro menti costituiva qualcosa di molto importante per la nuova vita dell’Italia, e non privo di rischi per le loro stesse persone (29).

Fu anche deciso, in quella riunione del 24 settembre, che Croce redigesse un manifesto agli italiani e Pavone un appello per l’arruolamento dei volontari. Il manifesto, steso da Croce il 26, non corrisponde completamente a quello comparso poi in Napoli il 10 ottobre (30). Croce stesso scrive di averlo dovuto ritoccare in seguito agli avvenimenti sopravvenuti e alle intese che egli credette si fossero raggiunte con Badoglio (31). Da un confronto fra i due testi (32) le varianti introdotte non appaiono tuttavia di grande rilievo. Le parole « valore militare tedesco » sono sostituite, ad esempio, con « capacità militare tedesca », e, dove nella prima redazione, a proposito della guerra da fare ai tedeschi, si leggeva « perché questo ci ordina e a questo ci esorta, l’unico governo legale », nella seconda si fa uso di una dizione più attenuata: « perché è nella linea stessa segnata dall’unico governo che legalmente esiste ora in Italia ». Il manifesto è tutto costruito attorno al concetto della guerra ai tedeschi « che proseguiva tenace lo spirito del Risorgimento » e che, già viva nella coscienza degli italiani, era divenuta, dopo l’8 settembre, anche legale (non senza che Croce finisse con l’impigliarsi egli stesso nella questione della legalità, pur cercando di presentarla in modo traslato e metaforico).

Per ciò che più da vicino ci riguarda, il proclama è interessante per un problema, che vi viene sfiorato, dei rapporti fra i volontari e il governo Badoglio. Era questa, insieme all’altra dei rapporti con gli alleati, la questione essenziale cui prima o poi ci si sarebbe trovati dinnanzi: e si deve dire che essa non riuscì mai ad essere impostata, da Croce e dagli altri che si raggruppavano intorno a lui, con sufficiente chiarezza. Che Croce avesse di mira l’inserzione della iniziativa per i volontari nelle grandi linee di quel piano di un conservatorismo illuminato » mirante, per ciò che riguardava la monarchia, a salvare l’istituto sacrificando le persone di Vittorio Emanuele e di Umberto, e che è il sottinteso di tutta la sua azione in quei mesi (33), appare sufficientemente chiaro. Ma come quel piano nutriva in se forti contraddizioni (rischiando continuamente di confondersi con la pura e semplice azione filo repubblicana (34) e respingendo così per contraccolpo Croce verso un apparente agnosticismo istituzionale che era poi in realtà tale solo verso la repubblica e non anche verso la monarchia) (35), così anche l’iniziativa dei volontari, in quanto si ricollegava agli stessi principi informatori, risentiva delle medesime debolezze; anzi, le metteva particolarmente in luce, ove si ponga mente a ciò che il volontariato popolare, il « popolo in armi » ha sempre rappresentato nella tradizione di paura delle classi conservatrici, illuminate e no. L’equivoco personale di Croce veniva poi aggravato dall’essere accanto a lui, come ispiratori del corpo volontari (fino al punto di considerarlo spesso come loro cosa quasi esclusiva (36) alcuni uomini del per lui fastidiosissimo partito d’azione, portatori di esigenze diverse e tanto più radicali ma non sempre» neanche esse, del tutto chiarificate e univoche.

La forma in cui doveva innanzi tutto presentarsi il problema di fondo del volontariato era, necessariamente, quella dei rapporti con le truppe regolari italiane le quali, anche se quasi dissolte di fatto, costituivano pur sempre, di diritto, le uniche forze armate dello Stato. A questo proposito incerta e oscillante fu la posizione di Croce. In un colloquio del I° ottobre

con Zaniboni, ad esempio, poiché ha interesse a scoraggiare l’iniziativa di costui che parlava allora (37) di una legione dichiaratamente repubblicana e dipendente solo dal comando americano, Croce sostiene che i volontari non potevano che seguire l’esempio di Garibaldi nel 1859 e nel 1866, cioè aggregarsi all’esercito regolare, rinunciando, nel comune ideale della

cacciata dello straniero, ad ogni distinzione di partito (38).

Ma giova rammentare che in quei frangenti ogni gruppo che prendeva una iniziativa faceva solenne appello alla unità patriottica sopra le distinzioni di parte, così che non si può giudicare soltanto in base a queste affermazioni di principio. E il punto controverso stava proprio in questo: se l’unità dovesse raggiungersi affiancando all’iniziativa dell’esercito

regio altre iniziative che avrebbero necessariamente finito con l’agire in concorrenza con esso, o se invece l’esercito in quanto tale esprimesse da solo, nel solco di una tradizione la cui continuità non poteva in quel momento non apparire sommamente discutibile, l’unità delle forze combattenti italiane. Il contrasto non era, come non è mai quando si dibattono

questioni di rilievo, fra militari e politici, ma fra due politiche che si accusavano a vicenda di impedire, per scopi di parte, l’unità degli italiani; e coloro che invocavano il patriottismo per eludere la questione politica sembravano dimenticare come il patriottismo stesso fosse concretamente definibile solo in base a criteri politici.

Che quello che possiamo chiamare il « gruppo di Capri » si presentasse come gruppo politico, che qualificava di conseguenza politicamente i volontari che nascevano per sua iniziativa, appare evidente: perciò non bastava evocare i ricordi del 1859 e del 1866 (che venivano poi invocati da tutti, monarchici e repubblicani, conservatori e democratici) (39), ma occorreva risolvere il problema di fondo dei rapporti fra le forze politiche antifasciste delle varie correnti e quegli organismi del vecchio Stato che accettavano di porsi sul terreno della lotta antitedesca: il che, come è noto, non poté farsi che parecchi mesi più tardi. Sta di fatto che il « gruppo di Capri » cercò di presentarsi nei primi giorni dopo lo sbarco come

un gruppo capace di rappresentare, di fronte agli alleati, l’Italia antifascista assai meglio del governo Badoglio, con il quale veniva a porsi in una concorrenza che, quando da implicita si faceva esplicita, trovava Croce per primo perplesso, se non addirittura contrario. Man mano poi che verrà a cessare la confusione delle prime settimane, e il quadro dell’azione si slargherà oltre i confini della quinta armata, e i rapporti fra alleati e governo Badoglio si assesteranno, il gruppo di Capri, dissoltosi ormai nel Comitato di Liberazione Nazionale di Napoli, perderà importanza rappresentativa di fronte agli alleati, retrocedendo a gruppo di opposizione interna italiana; e i volontari, in cui pure affluiranno elementi lontanissimi dalle

posizioni crociane, seguiranno la sua parabola (40).

Alla fine di settembre, avviandosi ormai alla attuazione pratica l’iniziativa dei volontari, Croce avvertì comunque la necessità di un chiarimento con Badoglio, che aveva firmato nel frattempo a Malta (29 settembre) il lungo armistizio e, pur rinviando, specie per opposizione del re, la decisione, sollecitata dagli alleati, di dichiarare guerra alla Germania, aveva offerto la collaborazione militare italiana, senza ottenere tuttavia alcun impegno preciso (41). (Occorre anzi ricordare che il 21 settembre il generale Mac Farlane aveva, a nome della missione militare alleata, comunicato a Badoglio che le truppe italiane non dovevano più partecipare a operazioni di guerra in territorio italiano fino a nuovo ordine (42) ). La posizione di Badoglio andava comunque rafforzandosi, e Croce trasse dalle notizie trasmesse dalla radio la convinzione, esagerata, che fra il maresciallo e gli alleati si fossero raggiunti chiari accordi per la partecipazione italiana alla guerra contro la Germania (43). Scrisse perciò a Badoglio una lettera in cui si parlava di comunità di intenti nella lotta antitedesca e si presentava l’iniziativa dei volontari sotto tale profilo (44). Tarchiani e Craveri, latori del messaggio, partirono per Brindisi, dove il 4 ottobre ebbero un lungo colloquio con il maresciallo (45).

Badoglio affermò innanzi tutto la competenza esclusiva propria e della missione militare alleata a trattare questioni riguardanti l’Italia e le sue forze armate: risposta rigida, che tendeva a svalutare in partenza ogni iniziativa altrui, comprese quelle dei generali e degli uffici alleati che, egli disse, e non a torto, prendevano spesso decisioni di propria testa, all’insaputa gli uni degli altri. Tarchiani e Craveri cercarono allora di avere da Badoglio una affermazione che lo impegnasse a dare agli alleati, se richiesto, un parere favorevole alla costituzione dei volontari. A questo scopo essi svolsero una triplice argomentazione. Dissero innanzi tutto che Donovan non era un generale qualsiasi, ma un amico personale di Roosevelt, e che pertanto si poteva supporre avesse autorità sufficiente a trattare la questione dei volontari. Questo argomento, basato su una semplice supposizione si può pensare che servisse ad aumentare, piuttosto che a diminuire, la sospettosità di Badoglio. Portarono poi in campo l’argomento della apoliticità dei volontari e della necessità di combattere innanzi tutto

per la liberazione del Paese, senza dare agli stranieri l’impressione di dualismi e di attività all’insaputa o contro il governo legale. Infine Tarchiani cercò di far valere l’argomento conservatore, anticomunista (singolare corollario» invero, della apoliticità!): occorreva, egli disse, non lasciare ai « soliti comunisti » l’iniziativa della costituzione di bande d’azione che

avrebbero potuto divenire pericolose in seguito; occorreva poter mettere a frutto tutti gli elementi antifascisti e non comunisti che mal volentieri sarebbero tornati nelle file dell’esercito regio. Non era questo soltanto un argomento ad hominem (inficiato comunque, anche come tale, dal fatto che non erano certo alcune dichiarazioni verbali di anticomunismo da parte di un antifascista che potevano tranquillizzare Badoglio su un punto per lui tanto importante). Era in realtà presente, in Tarchiani come in Pavone e in altri, la preoccupazione che i comunisti o, per usare espressioni di Pavone, i « garibaldini » e gli « anarchici »» (46). potessero prendere loro l’iniziativa di un volontariato su larga scala, alla qual temuta prospettiva si mirava a contrapporre l’altra di un eventuale uso del corpo di volontari come formazione anticomunista (47). facendo cosi venire alla luce la contraddizione insita in chi voleva appellarsi direttamente al popolo ma in funzione, tutto sommato, conservatrice e quindi con l’incapacità di condurre fino in fondo l’azione intrapresa. Agli argomenti prospettatigli Badoglio in un primo momento rispose in termini generici che avrebbe sempre dato il suo appoggio a qualsiasi iniziativa volta a cacciare i tedeschi dall’Italia ; poi specificò che se fosse stato richiesto dagli alleati del suo parere sui volontari avrebbe dichiarato di ignorarli; infine fu indotto a dichiarare formalmente tre volte che avrebbe dato un parere favorevole. Intramezzò il suo dire con l’affermazione che anch’egli cercava d: organizzare un corpo di avanguardia da mettere a disposizione degli alleati, e con l’invito a procedere cautamente con i volontari, sulla cui fermezza d’animo per un lungo periodo di tempo dubitava, dato il rischio che essi correvano di essere fucilati se catturati dai tedeschi; la quale preoccupazione, se si ricorda l’atteggiamento da lui tenuto a Malta quando la questione era stata posta da Eisenhower, suona più che altro come tentativo di scoraggiamento. Quanto alle correnti « sovversive » mostrò di aver fiducia più nella prolungata occupazione alleata che negli argomenti di Tarchtani; e sulla coalizione dei partiti antifascisti ebbe parole di sprezzo che deponevano male sulla sua intenzione di svolgere un azione favorevole a una iniziativa militare che da quella partisse. Approvò poi il proclama di Croce, ma espresse l’opinione, accolta da Tarchiani e Craveri, che « non sarebbe stato opportuno diffonderlo subito per

la parte che riguardava il suo governo, perché egli doveva ancora ignorare la nostra iniziativa fino a che non fosse definitivamente approvata dagli alleati ». In queste parole si nasconde la riserva mentale che minava la sua dichiarazione di appoggiare l’iniziativa: l’avrebbe appoggiata, ma intanto trovava modo di ripetere che, fino a che gli alleati non approvavano, lui doveva ignorare tutto.

Mal si apposero dunque Tarchiani e Craveri quando riferirono a Croce, che fece sua la loro opinione, di essersi intesi con Badoglio « presto e a pieno », « nel senso che noi opereremo in modo affatto indipendente dal governo del re e che egli, Badoglio, non ci porrà nessuno impedimento» (48). Croce credeva dunque possibile un compromesso che in realtà appariva fondato soltanto su una inesatta valutazione della situazione. Nel colloquio che aveva avuto il 6 ottobre, il giorno prima del ritorno di Tarchiani e Craveri da Brindisi, con Joyce Lussu, alle insistenze di questa perché si facesse la guerra ai tedeschi non solo ignorando il re e Badoglio, bensì contro di loro, aveva risposto mostrando la impossibilità di una simile impresa, ma indicando poi una specie di soluzione intermedia: i volontari non sarebbero stati ne monarchici ne repubblicani e non avrebbero prestato giuramento ne al re ne a Badoglio: essi dovevano pensare soltanto a cacciare i tedeschi e a farsi onore (49).

Chi ebbe una più esatta idea del risultato del colloquio di Brindisi fu invece Massimo Salvadori che, poco convinto della soddisfazione che esprimevano Tarchiani e Craveri, fu del parere che Badoglio stesse « cercando di imbrogliare le carte » (50).

Erano intanto continuate le trattative fra il comando della quinta armata e il generale Pavone. Questi ricevette il 5 ottobre una lettera dal colonnello Huntington che lo informava dell’approvazione data il 4 dal generale Clark, sotto certe condizioni, alla proposta presentatagli il 26 settembre per la formazione degli Italian Operational Groups, e concludeva esprimendo la fiducia che l’impresa avrebbe aiutato gli alleati e giovato

« in some way, to unite Italian people». La lettera era redatta in tono cordiale, ma la impostazione politica e democratica che si riscontrava in quella precedente di Donovan già vi appare attenuata.

I criteri fissati da Clark furono poi elencati in una successiva lettera, in data 8 ottobre, di Huntington a Pavone (51). In essa si legge che gli Italian Operational Groups saranno organizzati sotto la direzione del comitato di cui fanno parte Croce e Pavone: quest’ultimo sarà il membro militare del comitato « in charge of such organization ». Mettere i volontari in modo così formale alle dipendenze del comitato significava ovviamente politicizzarli: e perciò subito dopo, quasi a ristabilire l’equilibrio, si precisa che i gruppi di combattimento dovranno essere assolutamente apolitici e dovranno impegnarsi a svolgere opera di vigilanza contro qualsiasi tentativo di opposizione, politica o militare, al re e al governo Badoglio. Sostanzialmente si trattava di formulazioni che si prestavano ad equivoci e che, mentre non potevano tranquillizzare gli ambienti monarchici e badogliani, offrivano loro l’arma per contrastare i volontari non appena questi, cosa che era impossibile prima o poi non avvenisse, si fossero lasciati andare a un qualsiasi atto politicamente qualificabile. Non meno passibili di equivoco devono considerarsi le disposizioni strettamente militari della lettera alleata. Abbiamo visto come la posizione di Pavone non fosse indicata con formula molto chiara. Si ripeteva in verità poco dopo che i gruppi sarebbero stati organizzati sotto comando italiano, ma l’insistenza in se stessa ovvia, sulla stretta dipendenza dal comandante della quinta armata, velava le reali intenzioni alleate sui criteri di impiego delle formazioni volontarie. Già l’indicazione che i gruppi avrebbero dovuto essere composti di 4 ufficiali e 30 soldati ciascuno (per un totale iniziale di 15 gruppi, cioè di 510 uomini), avrebbe dovuto far nascere qualche sospetto; e ancor meno rassicurante era l’accenno, contenuto nella lettera del 5 ottobre, alle armi e alle munizioni italiane già confiscate che si era riusciti a ottenere per i volontari (52). Pavone, in effetti, non fu del tutto persuaso dal tenore del documento americano e, nella lettera di accettazione, chiese chiarimenti sulla sua posizione di comando. Gli rispose (10 ottobre) il colonnello Huntington chiarendo che tutti i gruppi di combattimento sarebbero stati alle dipendenze di lui, Pavone, rimanendo tuttavia sotto la direzione e il controllo del comandante della quinta armata per ciò che si riferiva al loro impiego operativo. Pavone manifestò ancora qualche dubbio, ma Craveri e l’ufficiale americano di collegamento lo rassicurarono, dichiarando che la nuova formula esprimeva esattamente il pensiero di esso Pavone che poteva così riassumersi: «Io dipendo dal Comando d’Armata da cui ricevo ordini per le operazioni da compiere dai reparti. Io ubbidiente e coscienzioso preparo l’operazione che sottopongo al comando mio superiore e che ha la responsabilità. Indi la faccio eseguire io. Altre richieste non d’ordine operativo saranno esaudite previa comunicazione doverosa all’Armata. Così per le informazioni » (53).

Ci siamo dilungati su questo punto perché è in relazione ad esso che scoppierà ben presto la crisi fra Pavone e il comando americano. Raggiunta ad ogni modo per il momento una intesa, Pavone si trasferì a Napoli ormai liberata, dove, in largo Carità, stabilì la sede del suo comando e diede inizio all’opera organizzativa dei Gruppi Combattenti Italia.

Si rendeva innanzi tutto necessaria la pubblicazione del bando di arruolamento, che era stato preannunciato anche da Croce nel suo manifesto. Pavone lo redasse mettendo in evidenza che i volontari venivano costituiti dal Fronte Nazionale della Liberazione e che essi combattevano a fianco degli alleati per l’onore e la libertà d’Italia. Il bando faceva appello all’unione dei liberi italiani « a prescindere dai partiti e dalle idee » e, pur nei richiami poco congrui alla terra meridionale « ove già oltre venti secoli addietro sorse l’idea della unità della Patria » non era privo di una sua sincera concitazione (54). Al bando erano unite alcune Norme e condizioni di arruolamento, in cui si parlava dell’ « onta patita» e della « vergogna di una sconfitta senza precedenti cui ha fatto seguito la scomparsa di ogni compagine militare per deficiente disciplina e senso del dovere specie dall’alto verso l’inferiore » ; accenno, quest’ultimo, che non poteva certo riuscire gradito a Badoglio e ancor meno a Roatta, ad Ambrosio e agli altri generali dello Stato Maggiore.

Fu proprio in relazione a questo bando che sorse il primo urto coi comandi alleati. Clark, infatti, ne proibì la pubblicazione, sia per manifesto che a mezzo stampa. In una burrascosa seduta che seguì a questo proposito il 15 ottobre fra Pavone e Tarchiani da una parte e gli ufficiali alleati dall’altra (55) Pavone parlò con molta energia, disse che pretendere che il reclutamento avvenisse alla buona e alla spicciolata indicava la volontà di sabotare l’organizzazione « tanto solennemente voluta sia dal rappresentante personale di Roosevelt che da tutti » e concluse che lui se ne sarebbe andato non volendo fare cosa poco seria e non volendo fornire uomini « quale carne da macello e per sfruttamento ». Per quella volta,

tuttavia, la crisi fu superata: gli ufficiali di collegamento americano (Tompkins) e inglese (Randall) tornarono dopo qualche ora a spiegare che si trattava di un equivoco, che nulla era mutato e che si voleva soltanto dire che non era il caso di far pubblicità per timore di rappresaglie tedesche: « quasi che» commenta Pavone «i tedeschi non venissero a sapere la cosa senza il manifesto! ». Del qual manifesto mai si riuscì poi a ottenere la pubblicazione.

Quali avrebbero dovuto essere i criteri di impiego dei volontari? I documenti alleati che abbiamo sopra richiamato parlano di guerriglia, guerra irregolare, informazioni, sabotaggio, ma specificano anche, e su questo punto avevano insistito sia Croce che Pavone, che i volontari avrebbero combattuto con uniforme e bandiera italiane. Appoggiandosi in

pur titolar modo a quest’ultimo punto, Pavone aveva vagheggiato dei reparti in divisa italiana, bene organizzati, che marciavano compatti con il tricolore spiegato in testa. Più precisamente egli pensava, come a modello, ai reparti d’assalto che, nella prima guerra mondiale, erano stati da lui comandati presso la terza armata. La guerriglia dietro le linee avversarie e il servizio di informazioni erano pertanto visti da Pavone come un aspetto soltanto dell’attività dei volontari: il combattimento in campo aperto rimaneva per lui la meta principale cui tendere (56). Di fronte alla realtà delle diverse intenzioni alleate, che venne ben presto delineandosi. Pavone cercò di escogitare soluzioni di compromesso, salvo poi a puntare i piedi quando gli sembrava che gli alleati non tenessero fede agli accordi stipulati.

Testimonianza dei suoi sforzi in questo senso è un opuscolo da lui composto per essere diffuso fra i volontari, dal titolo La Guerra dei Partigiani. Purtroppo l’opuscolo ci attesta anche una notevole confusione di idee. Esso esordisce con una definizione meramente tecnica della guerra partigiana: « E’ guerra di partigiani, secondo una vecchia definizione, quella che non ubbidisce ad un concetto unico di impiego, il cui piano d’azione è fatto da ogni comandante di colonna ed ha per mira successi parziali ». Subito dopo si aggiunge che tale tipo di guerra si rende necessario, come extretma ratio, solo quando sono stati distrutti gli eserciti regolari e un popolo si vede costretto a difendere « con le unghie e coi

denti » la propria libertà e indipendenza. Gli esempi citati sono la Spagna 1808, la Russia 1812, la Vandea 1871, Andrea Hofer. Ma, si affretta a chiarire Pavone, « non è questo il tipo di guerra che dobbiamo fare ». La nostra guerra deve essere « guerra minuta, sciolta, piccola, che appositi elementi (« speciali reparti a latere » dice in altro luogo) combattono senza

apparente legame tra di loro, ma ubbidendo invece ad un unico concetto che si inquadra, si lega, si intreccia, che completa il grande quadro organico dell’esercito regolare » : dove l’accavallarsi dei termini esplicativi denota poca sicurezza di concetti. Non è tuttavia il caso di proseguire un’analisi puntuale dell’opuscolo. Vogliamo però ricordarne la conclusione in

cui, andandosi in cerca di un motto, se ne propongono due: il memento audere semper creato da D’Annunzio per i motoscafi antisommergibili, e il vendicarsi- vincere – morire dei partigiani del cardinale Ruffo: su l’inopportunità dell’uno come dell’altro è appena il caso di richiamare l’attenzione (57).

In armonia con l’idea che egli si era fatta delle funzioni che i suoi reparti avrebbero dovuto svolgere. Pavone diede mano a crearne l’ossatura organizzativa: e qui bisogna dire che il suo professionismo militare gli prese la mano fino a farlo andare non solo molto al di là di quelle che erano le intenzioni degli alleati, ma anche di ciò che si richiedeva per la funzionalità di un corpo volontario nascente in quella situazione di emergenza. Pavone previde una congerie di comandi, di uffici, di segreterie: stato maggiore, intendenza, quartier generale, deposito, commissariato,matricola, archivio, protocollo ecc.: onde giustamente Aldo Garosci, la cui attività gravitò in quelle settimane attorno ai Gruppi Combattenti Italia, poté scrivere che, per quanto il generale Pavone incutesse ai militari alleati più rispetto che lo stesso Croce e per quanto egli fosse « uomo di singolare bontà, di energia e di buon senso rari in un generale » non era la persona più adatta a reggere una impresa di fortuna: infatti «dove ci sarebbe voluto un capitano, o meglio un organizzatore politico e un capo partigiano. Pavone pensando al poi che era stato promesso… voleva uno stato maggiore» (58).

Furono i comandi alleati a rompere ben presto ogni illusione che ci si fosse potuta fare. Il 16 ottobre il colonnello Huntington chiese che venissero approntati, due la settimana, e a partire dal 24 ottobre, sei gruppi di 4 ufficiali e 30 uomini l’uno da essere inviati presso il VI° corpo e la III divisione per l’uso che i rispettivi comandanti avrebbero creduto di farne (59). Pavone espresse la sua sorpresa postillando con punti esclamativi e interrogativi, e rispose che la richiesta era in contrasto con gli accordi precedenti, da poco ribaditi anche in una conferenza avuta con il colonnello Huntington, e secondo i quali le operazioni militari dovevano essere effettuate « sotto il comando del generale Pavone in conformità delle disposizioni del generale Clark e. Aggiunse, in tono piuttosto risentito, che era d’altronde impossibile fornire i gruppi per il 24, stante il divieto della pubblicazione del bando e la mancata fornitura di viveri e di autocarri per le varie sedi di arruolamento. Concluse parlando della necessità di selezione e di lunga preparazione e ribadendo la sua ostilità contro un impiego « a spizzico » dei reparti (60).

Gli alleati finirono però col prelevare ugualmente circa 50 uomini senza preventivo accordo col comando di Pavone, e per quanto questi continuasse a protestare in forme molto aspre (ma accadde anche che un gruppo dì uomini scelti come sabotatori si rifiutasse di compiere l’operazione che doveva essergli affidata) (61).

Un altro motivo di frizione fra Pavone e gli alleati era dato dalle paghe dei volontari. Già nella citata lettera a Croce del 12 ottobre Pavone aveva, chiedendo consiglio, affrontato la questione nascente dal grandissimo dislivello esistente fra le paghe americane e quelle italiane. Il colonnello Huntington, scriveva in quell’occasione Pavone lo aveva lasciato

arbitro di fissare paghe e assegni. E Pavone cercò di tenersi in mezzo fra le paghe americane e quelle italiane stabilendo tabelle mensili che andavano dalle lire 1.500 per il soldato semplice alle lire 10.000 per il colonnello. Personalmente Pavone non percepì alcun assegno. Non siamo in grado di stabilire se i volontari affluiti abbiano mai ricevuto tali paghe. Ma possiamo con sicurezza affermare che i comandanti alleati cominciarono a pagare direttamente, e senza nemmeno informarne il comando dei Gruppi Combattenti, somme cospicue agli uomini che avevano prelevato e che utilizzavano in operazioni fuori le linee. Ciò poco piacque a Pavone, che il 21 ottobre redasse per il colonnello Huntington un risentito promemoria in cui si appellava alle ragioni morali e politiche, fatte presenti agli americani anche dal comitato, che vietavano venisse fatto un « pagamento diretto pro-manches a militari operanti, da ufficiai li alleati », tanto più che le operazioni che davano luogo a quei pagamenti avvenivano completamente all’insaputa del Pavone stesso. Anche in quell’occasione, tuttavia, il dissenso fu apparentemente superato perché il promemoria rimase nel cassetto di Pavone, e furono presi accordi verbali con i rappresentanti alleati nel senso che i premi per imprese arditissime sarebbero stati proposti dagli alleati e concessi dal generale Pavone (62).

Ma noi possiamo ormai valutare la distanza che correva fra le primitive proposte che il generale Donovan si era indotto a fare in armonia con i concetti di Croce, e il comportamento dei comandi alleati. Questi ignoravano nella maniera più completa ogni finalità politico-nazionale in senso italiano dei Gruppi Combattenti Italia, e vedevano in essi solo un serbatoio

cui attingere, secondo loro esclusivi criteri, singoli sabotatori o informatori da inviare in territorio nemico, « i comandanti in sottordine nelle cui maniera finita la cosa » scrive Garosci « non vedevano nel nucleo di volontari che si organizzava il primo elemento di un esercito italiano libero, combattente per la stessa causa che le Nazioni Unite, ma piuttosto tendevano a prendere da esso gli elementi utili per qualche immediata azione di guerriglia o di sabotaggio » (63). Per comprendere nei suo giusto senso il richiamo di Garosci ai «comandanti in sottordine » occorre pensare non tanto a un naturale processo di scadimento dell’iniziativa man mano che si scendevano i gradini della gerarchia militare (né, del resto, può essere considerato in sottordine il generale Clark) quanto al fatto, di più generale significato, che le decisioni che si ispiravano alla linea di condotta del presidente Roosevelt (come era. pur nei suoi limiti, quella di Donovan) non sempre filtravano nella maniera più limpida e coerente attraverso gli organi tecnici militari, composti in genere da uomini degli strati sociali meno sensibili agli ideali democratici delle Nazioni Unite (64). E si deve dire ancora di più, cioè che, come esamineremo fra poco, il comportamento dei militari si inquadrava perfettamente nella linea generale di condotta alleata che, auspice Churchill, finì con l’essere adottata per le cose d’Italia.

Ma giova per il momento tornare ancora ai volontari dei Gruppi Combattenti Italia e porci un’altra domanda: quanti furono? e di che qualità umana?

Abbiamo visto come il numero massimo fissato da Clark per gli arruolamenti fosse di 510. Esso era stato considerato troppo basso da Pavone che, nella più volte citata lettera a Croce del 12 ottobre, aveva espresso il timore che ne sarebbe risultato sminuito il significato dell’impresa, e sarebbe stato provocato un riflusso di uomini sulle iniziative che prendeva Badoglio.

In realtà fin dai primi giorni si ebbe un afflusso notevolissimo di gente; si presentavano giovani desiderosi di combattere, soldati e marinai sbandati dopo l’8 settembre (specie se delle regioni centro-settentrionali), uomini animati da pure idealità, affamati in cerca della razione viveri americana, studenti, persone poco chiare, ufficiali con l’animo in rivolta contro

il comportamento degli alti comandi, popolani che avevano combattuto nelle quattro giornate (65). Attorno alla sede del comando e alla caserma di via Foria si creò così un flusso e riflusso di persone che nel loro insieme, superarono certo largamente il numero di 510. Si possono così intendere le numerose testimonianze secondo cui gli uomini presentatisi furono molto numerosi (66) e insieme l’altra contrastante che, nella già ricordata seduta del comitato di collegamento del 30 ottobre, parla dell’esistenza di circa 130 volontari (67).

Le oscillazioni numeriche vanno messe in rapporto alla qualità non molto omogenea e non tutta eccellente degli uomini che si presentavano.

Quando, ad esempio, il colonnello Tanferna si recò il 22 ottobre a visitare il distaccamento di Torre Caracciolo, si sentì innanzi tutto dire dai militari alleati di guardia alla caserma che i volontari affluiti avevano fatto penosa impressione; e il trattamento non proprio cortese usato al Tanferna fu evidentemente anche la conseguenza di tale impressione- Quando poi il colonnello riuscì a parlare con la trentina di volontari presenti, fu subito e brutalmente posto di fronte alla richiesta di paghe uguali a quelle americane, altrimenti, dissero i volontari, essi si sarebbero senz’altro arruolati direttamente nell’esercito americano di cui lodarono la bonaria disciplina in confronto con la durezza di quella imposta dagli ufficiali italiani, per i

quali ebbero molte parole di disprezzo (68).

Ma se alla chiamata avevano risposto persone anche moralmente sbandate, se alcuni dei troppi (in rapporto alla truppa) ufficiali presentatisi destarono in Pavone il sospetto che si trattasse di agenti dell’Intelligence Service (69), la qualità umana di molti dei volontari affluiti era eccellente (70). Basterà ricordare la presenza fra di loro di Giaime Pintor che insoddisfatto della lentezza con cui procedeva la preparazione dei reparti combattenti, si dedicò nell’attesa, con Francesco Flora e Aldo Garosci, ad organizzare a latere un ufficio stampa che si trasformò poi in un attivo Centro Italiano di Propaganda (71).

Il nome di Giaime Pintor ci riconduce alla considerazione di quello che era il significato ideale e politico che i migliori volontari attribuivano al loro tentativo, a prescindere dalle incertezze del « gruppo di Capri » e dalle cautele e difficoltà diplomatiche dei rapporti fra il nuovo embrionale organismo e il governo Badoglio.

« I soldati che nel settembre scorso » citiamo ancora parole di Pintor « traversavano l’Italia affamati e seminudi, volevano sopratutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di se il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati e diretti, i profittatori e i complici del fascismo, gli ufficiali abituati a servire e a farsi servire ma incapaci di assumere una responsabilità, non erano solo dei vinti, erano un popolo di morti » (72).

Era la sensazione di non potere affidare la causa del proprio riscatto a quei morti, che non avevano saputo consigliare nulla di meglio del « non irritare i Tedeschi e trattar bene gli Inglesi » del generale Del Tetto (73), che spingeva a tenersi lontani dal regio esercito e ad accorrere nel corpo volontari. « È venuto il colonnello T… antifascista… Fuggito da Roma» è

giunto a Napoli per prendere parte alla guerra, e poiché mi ha detto che ripugna a servire nell’esercito regio, l’ho indirizzato ai gruppi di volontari del Pavone » (74): anche Croce, dando questi consigli, obbediva implicitamente al concetto dei Gruppi Combattenti come alternativa all’esercito regio. Nettissime affermazioni in questo senso si potevano leggere sulla stampa. L’Italia Libera, ad esempio, partendo dalla constatazione che i cittadini « animosi ed entusiasti » che domandavano di arruolarsi erano « sistematicamente respinti dalle Autorità Militari » e che pertanto non si poteva contare più sul vecchio esercito, ne deduceva la necessità di creare un esercito di volontari che permettesse all’Italia di « tener fede al proprio passato mazziniano e garibaldino di affratellamento con i popoli di Europa

nella lotta per l’esistenza nazionale » : il partito d’azione, anzi, si spingeva fino a promettere agli italiani delle terre invase che ben presto « i nostri volontari» con armamento modernissimo, combatteranno al vostro fianco » (75). Il conte Sforza» nell’intervista concessa a Matthews per il New York Times il 23 ottobre, parlava dei giovani che passavano le linee per venirsi ad arruolare contro i tedeschi per precisare che « la maggior parte di essi speravano di entrare in un’armata di volontari, pronti a dare il loro giuramento di fedeltà all’Italia, ma all’Italia soltanto » (76). Garosci racconta delle speranze proprie e di Pintor di veder nascere un « corpo di volontari indipendente da ogni legame dinastico » (77) e Salvadori annota nel suo diario che « i volontari potrebbero rappresentare la forza armata di

un Comitato Nazionale organizzato intorno a Croce » (78). Quanto a Schiano, egli era convinto che i Gruppi Combattenti Italia dovessero rappresentare il primo nucleo del nuovo esercito repubblicano italiano (79). Lo stesso Pavone, in un suo ordine di servizio del 9 ottobre, chiedeva agli ufficiali che si presentavano una « breve dichiarazione della linea di condotta che vogliono seguire con riguardo dei loro desiderata politici e militari rispetto all’avvenire prossimo ».

L’atteggiamento di favore pei volontari e di ostilità verso il regio esercito non era motivato solo in rapporto al passato e al presente: veniva infatti espresso anche il timore che l’esercito potesse essere in futuro usato dal re per scopi dinastici e di parte. Lo scrisse chiaramente lo stesso Croce nella lettera a Walter Lippmann del 18 novembre 1943: a anche quando [il re] ha dichiarato la guerra alla Germania, e viene preparando forze militari a questo fine, egli si studia di formarle tali che servano a lui come sostegno per mantenersi sul trono… » e, di conseguenza, aggiunge Croce, il re « in modo diretto o indiretto, con manifesti affissi o con manovre insidiose, vieta ogni levata di volontari; ed è una pena vedere i giovani che giungono qui a Napoli, dall’alta Italia e da Roma, dopo aver attraversato con grande ardimento le linee tedesche, rimanere delusi e oziosi, e sentire spento il loro ardore » (80). «Non vogliate preparare all’Italia una guerra civile », così anche Francesco Flora ammoniva il re pochi giorni dopo il fallimento dei Gruppi Combattenti, « formandovi un esercito dinastico che domani tenti di soffocare la volontà del paese e instaurare una nuova dittatura » (81).

Non è il caso di insistere con testimonianze in questo senso (82), perché già cosi appare sufficientemente confermato che l’alternativa che i Gruppi Combattenti Italia venivano di fatto a costituire, con la semplice loro esistenza, di fronte al re, a Badoglio e al loro modo di intendersi, depositari della « continuità dello Stato ». non era soltanto morale e militare, ma anche necessariamente politica. Non riuscirono a capirlo bene Croce e i « centristi » del suo gruppo o, per lo meno, non trassero mai tutte le conseguenze che avrebbero dovuto scaturire da una piena comprensione politica di quel fatto. Lo capì invece Badoglio. Anzi, nonostante

il contrario avviso di Croce, lo aveva capito benissimo, come già abbiamo visto, fin dal primo momento.

I timori e la reazione del maresciallo non devono apparire sproporzionati. Si consideri, innanzi tutto, il labile potere che egli riusciva allora ad esercitare su appena una parte del territorio meridionale e la sensazione che ne derivava, per i governativi non meno che per gli oppositori, della crisi acuta delle vecchie strutture statali. Crisi della quale i partiti politici

antifascisti sembrava fossero disposti a trarre profitto fino in fondo, specie quando il Comitato di Liberazione Nazionale votò il 16 ottobre la richiesta di un governo straordinario che assumesse i poteri costituzionali, facesse la guerra ai tedeschi e alla fine di essa convocasse il popolo per decidere sulla forma istituzionale dello Stato (83). Si pensi poi alla costante preoccupazione di Badoglio di essere soppiantato, lui, il firmatario e garante dell’armistizio, come uomo di fiducia degli alleati; e si aggiungano ancora le difficoltà in cui egli si dibatteva dì fronte allo stesso Vittorio Emanuele, il quale mostrava di avere una fiducia più piena in Roatta, Ambrosio e gli altri militari « puri », ostilissimi al volontariato, che nel troppo « politico » maresciallo (84).

Badoglio dunque si mosse. La dichiarazione di guerra alla Germania, avvenuta il 13 ottobre dopo tante tergiversazioni specie da parte del re, rafforzava la sua posizione di fronte agli alleati e alla stessa opinione pubblica italiana antifascista. Già dal 10, del resto, era stato emanato un bando per lo scioglimento di tutte le formazioni di volontari; con il che fu dato

il colpo di grazia agli embrionali tentativi pugliesi cui abbiamo accennato all’inizio (85). Ma contemporaneamente, anzi proprio lo stesso giorno 10, era apparso, con chiara funzione di contraltare, un manifesto del Comando Militare Italiano di Napoli, in cui si invitavano, « presi gli accordi col Comando degli Alleati », all’arruolamento volontario i giovani delle

classi dal 1910 al 1925 (86). Badoglio nel suo libro sull’Italia nella seconda guerra mondiale enumera le numerose e poco ascoltate richieste da lui fatte agli alleati di equipaggiare truppe italiane per il fronte. Esse traevano origine dalla linea di condotta generale che Badoglio si era prefisso di seguire; ma poiché uno dei temi centrali della polemica che, per accattivarsi

la fiducia degli alleati, si svolgeva fra partiti e governo era quello del contributo militare antitedesco che ciascuna delle due parti sosteneva di essere in grado di meglio fornire, è fuor di dubbio che i tentativi di volontariato sotto il controllo dei partiti spingevano Badoglio a procedere con più energia sulla strada della organizzazione dei reparti regolari. E infarti uno

degli argomenti che, contro il tentativo di Pavone, egli subito usò presso il comando alleato fu proprio quello di assicurare di poter fornire un aiuto militare molto più consistente (87). Il 6 ottobre Badoglio ebbe a questo proposito un colloquio con Alexander a S. Spirito vicino Bari, e fu deciso l’invio del raggruppamento italiano, già in preparazione, alle dipendenze della 5° armata americana (88). Si trattava del I° Raggruppamento Motorizzato, antecedente del Corpo Italiano di Liberazione, che il 18 ottobre pareva fosse già in procinto di andare in linea, tanto che il re in un proclama ai soldati poteva promettere per l’indomani la ripresa

della marcia interrotta a Vittorio Veneto (89), ma che poi avrà il battesimo del fuoco soltanto nella dura battaglia di Monte Lungo del 24 dicembre (90).

Il 28 ottobre era stato preso un altro provvedimento chiaramente in concorrenza con i Gruppi Combattenti Italia: l’emanazione di un bando (numero 8) del generale Ambrosio per l’arruolamento di volontari nel regio esercito. Si cercò anche di organizzare volontari dichiaratamente monarchici : di essi, scrive Croce, molte cose si dissero e, fra le altre, quella che non fossero mai esistiti (91). Il qual giudizio è, in linea di fatto, forse eccessivamente drastico (92); mentre in sede di valutazione di quelle che potevano essere le intenzioni degli ambienti monarchici, va ricordalo che l’idea di una organizzazione autonoma di combattenti monarchici non fu mai smessa del tutto, se si poté tentare di porla in atto anche fra i partigiani del nord (93).

La preoccupazione destata dai Gruppi Combattenti Italia negli uomini di Brindisi fu cosi forte che lo stesso principe di Piemonte fu indotto a muoversi in rinforzo alle manovre messe in atto dagli ambienti governativi e monarchici che avevano trovato nel generale Basso, trasferitosi dalla Sardegna a Napoli con l’incarico di governatore della città, uno dei principali

loro strumenti (94). Il 19 ottobre, trovandosi a Napoli, Umberto sollecitò un colloquio con Pavone, che ce ne ha lasciato il ricordo nel suo diario (95).

Di fronte al principe Pavone esordì dichiarando di esser fuori di ogni partito e riferì tutto quanto fino allora trascorso in ordine ai volontari. Disse dell’accenno che era stato fatto a farli entrare in Roma per primi (un’altra promessa del tutto fuori della realtà!), disse delle paghe, del cattivo trattamento fatto dalle autorità governative e militari agli sbandati dell’8 settembre, della scarsa fiducia dei soldati nei capi: Umberto approvò e lodò ogni cosa. Anzi, accennò perfino alla eventualità di indirizzare ai Gruppi Combattenti Italia un battaglione di studenti già allievi ufficiali che gli era stato chiesto di formare a Bari. All’uscita da un colloquio tanto promettente, Pavone fu fermato dal generale Emilio Gamerra, primo aiutante di campo del principe, che improvvisamente gli chiese: « sai cosa si dice di te? Che sei passato alla repubblica, e non è bello per un generale! ». » Mi sono limitato a dire anche a lui » scrive Pavone « che non appartengo ad alcun partito e solo volevo rivendicare il disonore di cui ci avevano coperto i generali fascisti. Egli ha detto che la colpa era di aver fatto la guerra che non doveva esser fatta! Solite gesuiterie cui non ho risposto ». Gamerra aggiunse poi che anche il principe era al corrente delle voci sul repubblicanesimo di Pavone, e si prese la cura di ricordare il bando di Badoglio che vietava gli arruolamenti. Il vero colloquio, dunque, fu questo con Gamerra.

Il peggioramento della situazione indusse Craveri, Caracciolo e Pavone a recarsi a Bari per un nuovo incontro con Badoglio, in coincidenza con l’arrivo in Puglia del conte Sforza (cui Croce inviò la lettera che pubblichiamo in appendice, insieme all’altra di Sforza a Badoglio) (96). Il 23 ottobre si svolse così un colloquio in cui il maresciallo tolse senza troppi

complimenti ogni illusione sulla sua acquiescenza alla costituzione dei volontari (97). A nulla valsero gli argomenti di Pavone, che ricordò ancora una volta il desiderio dei soldati di non combattere più con i comandanti che li avevano abbandonati 1’8 settembre: l’argomento, anzi, quanto più era vero tanto più doveva sortire un effetto contrario alle speranze di Pavone. Il fregati in pieno! con cui Craveri siglò l’incontro fu dunque pienamente giustificato; e giustificati appaiono pure i commenti di Pavone sulle pressioni che Roatta e i « generali della sconfitta » esercitavano su Badoglio per indurlo a far sciogliere i volontari dal generale Clark, per il cui comando a Napoli il maresciallo era in procinto di partire (98).

Nella stessa giornata del 23 Caracciolo affrontò l’argomento dei volontari anche con il colonnello britannico Rosenbery, da lui definito « l’uomo chiave della missione militare alleata ». Al Rosenbery, che accusava di settarismo i capi antifascisti che si opponevano alla formazione intorno al re di un più largo governo, Caracciolo, parlando a nome del partito d’azione rispose che questo acconsentiva a rinviare la questione istituzionale dopo la fine della guerra, ma che non poteva transigere sulla persona del re. Ciò non impediva la partecipazione alla guerra contro la Germania : anzi, i Gruppi Combattenti Italia andavano visti proprio come strumento di questa partecipazione. Ma il colonnello, sia pure « con parole molto velate », fece capire a Caracciolo che a iniziative militari, all’infuori del quadro delle

istituzioni esistenti, non sarebbero state incoraggiate dalle nazioni alleate, in così incerte condizioni politiche Non migliore esito ebbero i colloqui di Caracciolo con Caccia e Reeber, i due esperti dei ministeri degli esteri inglese e americano presso la missione alleata. Ognuno rimase sulle sue posizioni, e l’impressione di Caracciolo fu che i rappresentanti alleati parlassero in base a istruzioni molto precise dei loro governi (99).

Così in effetti era: e fu indubbia abilità di Badoglio portare la questione dei volontari al livello delle direttive generali della politica alleata in Italia: a quel livello i volontari erano irrimediabilmente condannati. Quale fosse l’atteggia mento degli anglo-americani verso l’Italia e i suoi problemi non è questa la sede di riesporre. Possiamo però ricordare la chiara paginetta delle sue Memorie in cui il principale ispiratore di quell’atteggiamento, Churchill, riassume il suo punto di vista, consistente nell’appoggiare il re e Badoglio in base alla convinzione che essi « sarebbero stati in grado di fare di più. per quella che era divenuta ora la nostra causa comune, di qualsiasi Governo italiano formato di esuli o di avversari del regime fascista». Né, aggiunge Churchill, era il caso di preoccuparsi troppo dei «soliti argomenti contro l’aver a che fare con coloro che avevano collaborato o sostenuto Mussolini», che anzi non c’era che da disprezzare la « interminabile serie di intrighi tra sei o sette partiti più o meno di sinistra… per liberarsi del re e di Badoglio e assumere loro il potere » (100).

Il « realismo » di Churchill, che partiva dalla constatazione che Badoglio era il firmatario e il garante dell’armistizio e l’unico che sembrava detenesse quel minimo di potere necessario a far considerare ancora l’Italia uno Stato capace di prendere impegni e di rispettarli, trovava

il suo fondamento ultimo nella visione imperialistica dei fini di guerra, in quanto re e Badoglio rappresentavano non uno Stato qual che si fosse, ma lo Stato conservatore tendente a staccarsi col minimo di rottura dal fascismo e garante, sul piano interno come su quello esterno, contro il i bolscevismo rampante » (101). Perciò scarsa eco trovarono ai Comuni, nel

dibattito sull’Italia dei giorni 21 e 22 settembre, gli argomenti laburisti che si appellavano anch’essi, a loro modo, al realismo, sostenendo che « se il legittimo appello dei capi democratici italiani al popolo italiano fosse stato consentito » in modo che « la fiamma della libertà legittimamente percorresse l’Italia, come fece durante il Risorgimento » i tedeschi avrebbero avuto danni assai maggiori di quelli apportati loro da uomini che si è preteso dovessero rischiare la vita per sostenere, con armi insufficienti, dei voltagabbana; e invano il deputato Thomas ricordò l’esempio dei garibaldini della guerra di Spagna (102).

Se i deputati laburisti non riuscirono a commuovere Churchill, sarebbe stato ben strano che a tanto fossero riusciti Croce e Pavone. Appoggiare il governo Badoglio con la motivazione che esso meglio poteva fornire aiuto alla causa alleata (103) non significava però, per gli

alleati, appoggiare anche la partecipazione in forze di truppe italiane alla guerra contro la Germania, sol che si trattasse di reparti regolari. Infatti, se Churchill aveva dichiarato che i paesi già satelliti della Germana dovevano « pagarsi col lavoro il biglietto del viaggio di ritorno » (104), non era poi detto che i bigliettai fossero tanto inclini a permettere che i candidati raggranellassero il peculio necessario all’acquisto del biglietto. C’era, è vero,

la dichiarazione di Quebec, ripetutamente invocata da Badoglio nelle sue offerte di truppe italiane per la guerra : ma, per quanto essa aprisse uno spiraglio, vi si leggeva anche chiaramente la preoccupazione « che gli italiani comparissero come belligeranti, neanche… irregolari, nella preparazione della pace » (105). Questa preoccupazione faceva blocco con l’altra che la guerra a fondo contro i tedeschi e i fascisti desse troppo slancio al movimento popolare, e si mescolava poi al rancore nazionale contro un paese nemico fino al giorno prima e alla non eccessiva fiducia nella capacità militare degli italiani.

Il risultato era che il tentativo dei volontari dei Gruppi Combattenti Italia veniva a trovarsi addosso una doppia ostilità alleata: quella specifica contro le iniziative contrarie, o per lo meno estranee, al governo regio, e quella generale contro la effettiva partecipazione italiana alla lotta antinazista. Era la stessa ostilità che il movimento partigiano si trovò contro

sopratutto al suo inizio e che. per citare un esempio fra i tanti, fece sì che quando la prima missione italiana si recò in Svizzera alla fine del 1943, i suoi componenti si rendessero conto che gli alleati si aspettavano, proprio come da Pavone e dai suoi volontari, esclusivamente azioni di sabotaggio e informazioni militari (106).

I Gruppi Combattenti Italia, presi fra il fuoco incrociato della politica del governo italiano e di quella alleata, avevano dunque i giorni contati. Quando Pavone tornò il 29 ottobre da Bari a Napoli dovette constatare di essere stato cacciato dall’ufficio c dall’alloggio, e trovò un clima generale di smobilitazione, aumentato dal timore di ciò che avrebbe detto Badoglio,

venuto anche lui a Napoli, al generale Clark (107).

La situazione, che chiaramente precipitava, spinse il 30 ottobre ad una riunione del comitato di collegamento, cui parteciparono i « politici » (Tarchiani, Caracciolo, Craveri). i « militari » (Pavone, Tanferna) e i due ufficiali alleati di collegamento (Tompkins, Randall) (108). Tarchiani fece una lucida esposizione, in cui portò al pettine tutti i nodi che si erano ingarbugliati nelle settimane precedenti, concludendo che, o si tornava al primitivo concetto ispiratore dell’accordo Croce-Donovan, o il Fronte Nazionale della Liberazione si sarebbe ritirato da una impresa priva ormai di quel carattere patriottico che solo giustificava l’intervento di un organismo politico come il Fronte. Nel caso si fosse dovuto continuare, Tarchiani, d’accordo con gli altri italiani, pose condizioni molto precise, che Tompkins pregò venissero formulate in un promemoria da far esaminare alle superiori autorità alleate. Esse possono riassumersi nella richiesta di viveri, divise, armi in quantità adeguata, e nella accettazione del principio che i volontari dovevano essere utilizzati dalla 5° armata come reparto organico alle dipendenze del comando italiano di Pavone (109).

Il mattino del I° novembre Pavone ricevette dal colonnello Huntington la lettera di risposta al promemoria : era una fredda lettera di congedo, annunciato con una burocratica perifrasi. Il colonnello dell’O.S.S. sì limitava infatti a dire che avrebbe preso altrove gli uomini di cui aveva bisogno, e che col I° novembre non sarebbero stati più fomiti ne viveri ne vestiario (110). I Gruppi Combattenti Italia erano finiti.

Vale la pena, di fronte alla lettera del colonnello Huntington che conteneva appena qualche generica parola di rammarico e di ringraziamento per ciò che era stato fatto per la causa alleata, ricordare il tono assai diverso in cui scrisse a Pavone il maggiore Munthe. Questi esprimeva un sincero rincrescimento, riconosceva che alcune delle difficoltà incontrate erano dovute agli alleati e parlava infine chiaramente del significato antifascista della fallita iniziativa, nonché della spinta che essa aveva dato ad una maggiore attività alleata nella formazione di centri di resistenza italiana ( 111).

Croce non ebbe, sul momento, una reazione molto forte: anzi pensò subito, in un incontro con Tompkins, a sostituire gli scomparsi volontari con una opera « affine» (112). Forse i colloqui che proprio in quei giorni lui e Sforza avevano avuto con Badoglio (113) lo avevano indotto a pensare che non valeva la pena impuntarsi sui volontari quando si poteva sperare in un generale accordo politico col maresciallo (114). Solo qualche giorno più tardi, come abbiamo visto all’inizio. Croce, svanite o attenuatesi quelle speranze, tornò sull’argomento. Ma se egli davvero pensò a possibili opere affini significa che non aveva bene afferrato i motivi ultimi del fallimento. Questi sono invece ancora una volta meglio individuati da Salvadori: il «naufragio Pavone », egli scrisse il 16 dicembre, fu il « risultato dell’accordo tra Badoglio e la commissione alleata » (115): il terreno su cui fu possibile tale accordo ormai lo conosciamo.

Può essere di un sia pur lieve interesse ricordare che la stampa fascista la quale, pur di parlare male di Vittorio Emanuele e di descrivere come caotica la situazione meridionale, non andava troppo per il sottile, cercò di trarre profitto dall’evento asserendo che i volontari del generale

Pavone erano stati disciolti perché avevano rifiutato di prestare giuramento al re (116).

Dei volontari presentatisi si salvarono dal naufragio due nuclei principali. Uno fu quello adunato attorno a Pintor e che organizzò il passaggio delle linee in cui Giaime doveva trovare le mine tedesche e la morte, come la morte trovò poi alle Fosse Ardeatine un altro di quel gruppo. Paolo Petrucci (117). L’altro diede luogo, ad iniziativa di Craveri, alla Organizzazione per la Resistenza Italiana (O.R.I.). Fu questo un servizio segreto cui diedero il loro apporto uomini di tutti i partiti antifascisti e che ebbe poi notevole importanza nell’organizzazione dei contatti con le forze partigiane dell’Italia settentrionale (118). E che i comandi alleati, anzi proprio Donovan, appoggiassero tale formazione subito dopo il fallimento Pavone, è una ulteriore conferma che anche per i Gruppi Combattenti Italia gli americani avevano pensato più a qualcosa di quel tipo che ad un esercito schierato in campo.

Se l’incertezza dei capi politici, l’insufficienza di quelli militari, La ostilità di Badoglio e del re, l’incompatibilità con la linea di condotta alleata provocarono il fallimento dei Gruppi Combattenti Italia, che si trovarono immaturamente di fronte ad alcuni dei problemi di fondo della Resistenza (119). l’esperienza fatta non può tuttavia considerarsi inutile.

Si erano potuti vedere degli italiani desiderosi di riconquistare combattendo la propria dignità di popolo; e alcuni di essi erano giunti fino allo spargimento del loro sangue. Nella atmosfera di qualunquismo ante literam che minacciava di soffocare l’Italia meridionale, l’esempio fornito non era di poco momento.

La delusione subita aiutava poi a porre con maggiore chiarezza il problema della guida politica della Resistenza e dei difficili e pericolosi, per le idealità antifasciste, rapporti di essa con quegli organismi del vecchio Stato che mostravano di voler partecipare alla guerra antitedesca. D’altro lato la stessa delusione favoriva il processo di decantazione dei sentimenti

di sdegno provocati dalla condotta delle autorità 1’8 settembre, in modo che fosse resa poi più agevole, di fronte alla constatazione che il dissidio aprioristico con Badoglio andava a tutto vantaggio delle forze che volevano tener lontana l’Italia dalla effettiva partecipazione alla lotta antinazista, quella politica di unità nazionale di cui, nell’ottobre del 1943, non erano

ancora maturate tutte le condizioni che potessero farla facilmente accettare dalla totalità degli antifascisti.

Oggi l’esperienza dei Gruppi Combattenti Italia ci mostra anche chiaramente come solo la nuova realtà del movimento partigiano, che dalle dure condizioni imposte dall’occupazione tedesca traeva la possibilità di pagarsi a carissimo prezzo il vantaggio di una organizzazione sorgente senza bisogno di permessi preventivi né del re né degli alleati, poteva porre su

nuove basi la partecipazione popolare alla battaglia contro i fascisti e i nazisti e poteva, per ciò che più da vicino ha attinenza col tema da noi trattato, dare un significato « italiano » anche all’invio dietro le linee tedesche di sabotatori e informatori che non assumessero la figura di « oscuri ausiliari di quinta colonna » (120).

 

 

 

Note

Claudio Pavone I GRUPPI COMBATTENTI ITALIA

 

(1) B. CROCE, Quando l’Italia era tagliata in due, Bari, 1948 (citeremo quest’opera col nome di Diario). Gli accenni contenuti in altri scritti verranno richiamati nel corso della esposizione. Qui ricordiamo soltanto, per la sua aderenza alla fonte crociana, F. NlCOLINI, brevi cenni sulla vita e sui principali scritti di Benedetto Croce, in Nuova Antologia» n. 1825^26 (gennaio-febbraio 1953), p 26 dell’estr.

 

(2)B. CROCE, Diario, cit. p. 31.

(3) B. CROCE, Diario, cit, p, 48.

(4) B. CROCE, Diario, cit., p. 95. Nella breve nota esplicativa al Manifesto per la chiamata dei volontari (Per la nuova vita dell’Italia, Napoli, 1944. p. 9) Croce scrive chiaramente che alcuni punti di quella penosa storia gli sono rimasti dubbi e oscuri. Anche A. OMODEO è dell’opinione che « non è ben chiaro se il ritiro del permesso di costituire il corpo di volontari avvenne per la diffidenza degli alleati verso gli italiani in genere, o, cosa più probabile, per gli intrighi del govenuccio di Brindisi che non voleva altre formazioni armate » (Le vicende politiche nel periodo napoletano, in Lo Stato Moderno, II, 1945, n. 14, p. 158), Cfr. ora A. BOCELLI Giairne Pintor, in Nuova Antologia, n. 1845 (settembre 1954). p. 64, il quale ripete che Croce non ebbe « del tutto chiare» le cause del fallimento dei volontari.

 

(5)Notizia fornitami da Craveri e da Schiano. che qui ringrazio.

(6) B. CROCE, Diario, cit., p. 12. A. DEGLI ESPINOSA, Il Regno del Sud, Roma, 1946, p. 133, nell’unico cenno che dedica ai volontari attribuisce la paternità dell’iniziativa a Tarchiani. Nei giorni precedenti il 22 Croce si era in effetti intrattenuto con Tarchiani, Cianca e altri reduci dall’esilio e nei loro colloqui si era certo giunti a risultati dai quali doveva discendere come facile conseguenza quella di organizzare dei volontari. Ma se formalmente la proposta a Donovan fosse stata fatta da Tarchiani, Croce non avrebbe avuto motivo di scrivere cosa diversa. In quei giorni del resto, come subito vedremo, idee del genere venivano in mente a molti: crediamo non sia possibile, e comunque nemmeno molto importante, stabilire priorità rigorose. Sui piani di Tarchiani circa il volontariato si può ad ogni modo vedere il breve cenno di L. VALIANI, Tutte le strade conducono a Roma, Firenze, 19471 p- 46.

 

(7) Il proclama è riportato da A. DEGLI ESPINOSA, op. cit. pp. 56-58,

 

(8) A. DEGLI ESPINOSA, op. cit. pp. 80-81.

 

(9) G. PlNTOR, Il sangue d’Europa, Torino, 1950, p. 245. Sugli spinti fascisti di molti degli ufficiali dislocati in Puglia sono ormai numerose le testimonianze.

 

(10) «Lentezza e parsimonia» scrive L. LONGO, Un popolo alla macchia, Milano. 1947, p.. 51-55, incontrò nell’applicazione il piano di armamento di unità popolari e di collaborazione fra esercito e popolo elaborato durante i 45 giorni da lui, LONGO. a nome del partito comunista e che, fatto proprio dal Comitato delle Opposizioni. fu presentato a Badoglio senza che questi formalmente lo respingesse. A Napoli il Comitato dei partiti antifascisti propose poi alle locali autorità, subito dopo l’8 settembre, l’armamento del popolo, ma senza alcun esito (C. BARBAGÀLLO, Napoli contro il terrore nazista, Napoli, s. d., pp. 17-18. dove il rifiuto delle autorità è spiegato con la «sfiducia, che fin dal 1848. i nostri professionali dell’esercito nutrono verso i volontari e il volontarismo » o con il « terrore di un rafforzamento dell’autorità della piazza »).

 

(11) A. DEGLI ESPINOSA, op. cit., pp. 32-31, 124. il DEGLI ESPINOSA non dà la data esatta di questi avvenimenti; essi si possono però collocare nella seconda metà di settembre.

 

(12) A. DEGLI ESPINOSA, op. cit.. p. 147.

 

(13) «Un grande disorientamento regnava in Ufficiali e soldati, ed una subdola campagna tentava di gettare ogni discredito sui nostri reparti » scrive P. BADOGLIO nel suo libro di memorie (L’Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, 1946, p. 140).

 

(14) Una testimonianza in tal senso mi è stata fornita dal prof. Mario Benedicty, allora allievo ufficiale del genio a Trani, al quale vanno qui i miei ringraziamenti. La testimonianza del Benedicty si riferisce al periodo fino a metà ottobre.

 

(15) Vedilo pubblicato da CROCE in appendice al Diario, cit., pp. 145-46.

 

(16) Anche su questo punto mi avvalgo della testimonianza di Raimondo Craveri e di Pasquale Schiano.

 

(17) Il tenente americano Tompkins, che fungerà poi da ufficiale di collegamento con il comando dei volontari, spiegò a Croce che « il generale Donovan è molto intrinseco del Roosevelt e suo rappresentante presso Tarmata» (B. CROCE, Diario, cit.f p. 12).

(18) Non è il caso di dilungarsi, in questa sede, sulle ben note differenza di concezione politica e strategica che divisero, nel corso della guerra, Roosevelt non solo da Churchill, ma anche dagli ambienti americani più sensibili ai fini imperialistici che a quelli democratici di guerra.

 

(19) M. SALVADORI, Resistenza e Azione, Bari, 1951. p. 227, dove si parla anche dei « vasti mezzi e dell’appoggio di Roosevelt » di cui disponeva Donovan. Salvadori a più riprese parla dell’atteggiamento di sospetto degli americani verso « l’imperialismo britannico ». Sugli orientamenti politici degli ufficiali dell’OSS e sulla presenza fra di essi di numerosi elementi rooseveltiani, cfr. MAURIZIO, Il Movimento di Liberazione e gli Alleati, in Il Movimento di Liberazione in Italia, n. 1 (luglio 1949), PP- 20-21 n.

 

(20) Anche A. OMODEO, op. cit., p. 517, scrive che « purtroppo il generale Pavone, vecchio e travagliato dal male che di là a non molto doveva condurlo alla tomba, molto non seppe fare, e quel che fece non lo fece bene, il che offerse un pretesto per la revoca dei consentiti arruolamenti ».

 

 

(21) «Ottimo ma vecchio » lo definisce M. Salvadori, op. e loc. cit.

 

(22) Cfr. C. L. RAGGHIANTI, Disegno della liberazione Italiana, Pisa. 1954. pp. 25, 77, 189; Una lotta nel suo corso, Venezia. 19541 pp- 272-73, dove si parla di contatti risalenti al 1940. Pasquale Schiano mi ha raccontato come lui e Pavone presero contano, prima del 25 luglio, con il generale Del Tetto, comandante della Difesa Territoriale di Napoli, proponendogli di partecipare alla organizzazione della lotta antitedesca che si profilava inevitabile. Del Tetto citò poi l’episodio nel processo che subì innanzi all’Alta Corte di Giustizia a dimostrazione della fiducia che egli avrebbe goduto negli ambienti antifascisti.

 

(23 ) Lettera conservata fra le carte del generale Pavone, come tutti gli altri documenti che verranno citati in seguito e di cui non si indichi altra fonte.

 

(24) G. PAVONE, Diario, 26 settembre, e Osservazioni, in data 2 ottobre, alla Relazione Zaniboni (vedi dopo); lettera dell’8 ottobre del colonnello Huntington al generale Pavone (che pubblichiamo in appendice, e dove però la data della conferenza è erroneamente indicata nel 24). Cfr. anche M. SALVADORI, op. e loc. Cit.

 

(25) B. CROCE, Diario, cit.» p. 13; G. Pavone, Diario, 26 settembre; Relazione di T. ZAMBONI a Mr. Daons (Amalfi, 26 settembre 1943); Osservazioni sulla Relazione di Zaniboni inviate da G. Pavone a Croce (Torchiara, 2 ottobre).

 

(26) La lettera è pubblicata da B. CROCE in appendice al Diario, cit., pp. 146-7.

(27) Pavone fece a questo proposito i nomi di Roberto Bencivenga e Aldo Spallicci.

(28) Contrariamente a quanto lui stesso scrive nel Diario (e contrariamente alle notizie lasciateci da Pavone) Croce, nella nota che fa seguire alla lettera a Eisenhower, dice invece, inesattamente, che essa fu firmata anche da Tarchiani e da Craveri.

 

(29) Nella riunione di Capri e negli eventi dei giorni successivi si inserì Tito Zaniboni che, convinto dì essere stato dagli americani autorizzato a formare un corpo di volontari, ebbe con Pavone colloqui in cui non sembra che i due riuscissero a spiegarsi molto bene circa i rapporti e le interferenze fra le loro iniziative. Fatto sta che Croce ebbe l’impressione che Zaniboni mirasse a sostituire Pavone nel comando dei volontari, tanto che ne scrisse allarmato a Craveri, sconsigliando risolatamente di abbinare il nome di Zaniboni a quello della nascente impresa (lettera di B. Croce a R. Craveri, 28 settembre 1943). Cfr. B. Croce, Diario, cit., pp. 11, 15-16; e i due documenti citati a nota (25).

 

(30) Vedilo pubblicato in appendice al Diario, cit., pp. 154-56, nonché in Per la nuova vita dell’Italia, cit., pp. 9-12.

 

(31) B. CROCE, Diario, cit., p. 18.

 

(32) Copia del testo del 26 ottobre, con correzioni autografe di Croce, è fra le carte di Pavone.

 

(33) Per il giudizio sull’azione di Croce ci sembra sufficiente ricordare qui l’interpretazione fornita da persona tanto a lui vicina (F. NICOLLNI, op. e loc. cit.) e l’altra di R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza Italiana, Torino, 1953, p. 154. Croce stesso, del resto, si è dato cura di illustrare più volte a chiare note le sue intenzioni negli scritti politici che venne componendo in quel periodo.

 

(34) Cfr. R. BATTAGLIA, op. cit., p. 154.

 

(35) Cfr. G. Salvemini, La politica di Benedetto Croce, ne Il Ponte, X, 11 (novembre 1954), pp. 1742-43.

 

(36) Vedi, ad esempio, ciò che Filippo CARACCIOLO, che ci ha lasciato una delle testimonianze più ampie sul corpo volontari, di cui fu uno dei « politici », disse il 23 ottobre a Bari al colonnello Rosenbery per mostrare come i volontari discendessero dalle premesse politiche del partito d’azione (cfr. dopo) (Il governo di

Salerno, in Il Movimento di Liberatone in Italia, n. 7, luglio 1950. pp- 7-8- Anche P. Schiano mi ha testimoniato sul legame particolarmente stretto che lui e altri vedevano fra il partito d’azione e i Gruppi Combattenti Italia. Cfr. pure C. L. Ragghianti, op- cit-, p. 171 e la lettera dello stesso Ragghianti a Parri, 3 febbraio 1944

(in Una lotta nel suo corso, cit., p. 19).

 

 

(37) Alla fine di ottobre Zaniboni si recherà invece da Sforza chiedendogli se faceva bene ad andare da Badoglio per organizzare dei volontari (G. Pavone, Diario,24 ottobre).

 

(38) B. CROCE, Diario, cit., pp. 15-16.

 

(39) « Volontari per la guerra di liberazione? SI: ma che passino, come i cacciatori delle Alpi di Garibaldi, per i distretti dell’esercito nazionale » scrive, in ormai tardiva polemica, M.. LUPINACCI nella Prefazione al citato libro di Degli Espinosa (p. XI). Per l’appello di un democratico vicino al « gruppo di Capri » alla unità contro il tedesco, nello spirito di Mazzini, di Garibaldi e di Cavour, rimandando a dopo la lotta ogni altra questione, vedi, fra i tanti, l’articolo di Omodeo ne Il Risorgimento di Napoli, 9 ottobre T943 (riprodotto in A. Omodeo, Il problema istituzionale l’11 novembre 1943, Napoli, 1943, pp. 8-9). Di Omodeo si può vedere anche il discorso pronunciato all’Università di Napoli e riprodotto in parte da Il Risorgimento del 15 ottobre.

 

 

(40) Sulla funzione rappresentativa verso gli alleati che veniva attribuita a Croce e agli altri del suo gruppo, cfr. M. Salvadori, op. cit-, p. 228.

 

(41) Sull’incontro di Malta vedi P. BADOGLIO, op. cìr.t p. 245 e A. DEGLI ESPINOSA, op. cit., pp. 87-88. dove è riportato il verbale del colloquio, durante il quale non sembra che Badoglio e Ambrosio rimanessero molto scossi dalla osservazione di Eisenhower che» in mancanza di dichiarazione di guerra» i tedeschi avrebbero

potuto fucilare i combattenti italiani che sarebbero venuti facendo prigionieri.

 

(42) P. BADOGLIO, op. cit.« pp. 259. 244- Badoglio parla anche (p. 245) del telegramma di protesta da lui inviato il 22 a Eisenhower.

 

(43) B. CROCE., Diario, cit., p. 15.

 

(44) La lettera, in data 30 settembre, è riportata da CROCE in appendice al Diario, cit.. p. 147.

 

(45) Vedine il verbale, redatto da Tarchiani, in appendice al Diario, cit-, pp. 148-153, di B. Croce. Fra le carte di Pavone ne esiste copia con varianti di non grande rilievo.

 

(46) Lettera di G. Pavone a B. Croce, 12 ottobre 1943 parla di «formazioni garibaldine » da lui « stroncate »); Diario di G. Pavone, 19 ottobre 1943, in cui si parla del colloquio avuto, come vedremo, col principe di Piemonte (…« io ho detto che noi li eliminiamo [ gli anarchici] insieme ai fascisti »).

 

(47) In tal senso, se non m’inganno, può essere interpretato un rilievo fattomi da Raimondo Craveri.

 

(48) B. CROCE, Diario, cit.» pp. 17-18. Anche F. CARACCIOLO (op. cit., p. 6) si mostra fra quelli convinti che Badoglio non avesse fatto obiezioni a che i volontari agissero indipendentemente dal governo del re,

 

(49) B. CROCE, Diario, cit., p. 17.

 

(50) M. SALVADORI, op. cit, pag. 230.

(51) E’ il documento principale sulla costituzione del corpo volontari, e lo pubblichiamo in appendice.

 

(52) Anche BADOGLIO, nel ricordato colloquio di Brindisi, si era lamentato perché gli alleati gli avevano concesso di armare i suoi reparti solo con materiale italiano.

 

(53) Da un appunto di pugno di PAVONE in calce alla lettera citata del 10 ottobre. Quanto Pavone si preoccupasse della sua posizione di fronte agli americani risulta, fra l’altro, dalla ricordata lettera a Croce del 12 ottobre in cui spiegò come a lui premesse « non accettare una dipendenza che avesse sta pur la sola parvenza di inferiorità o di minor considerazione morale, militare e politica ».

 

(54) Vedilo riprodotto in appendice.

 

(55) G. PAVONE, Diario, 15 ottobre.

 

(56) Vedere, ad esempio, le citate Norme e condizioni di arruolamento, dalle quali risultano con chiarezza questi criteri direttivi.

(57) Veramente, anche nel Manifesto di Croce c’era un richiamo ai lazzari. quando si ricordava quel cuore e quello spirito pugnace e quello spontaneo eroismo che in passato rifulse in famose difese della nostra città contro gli stranieri » (Diario. cit., p. 155).

 

 

(58) A. GAROSCI, Un mese con Giaime Pintor, in Mercurio, I, 4 (dicembre 1944). p. 101- Che si trattasse di un «esercito… vasto, preparato come un corpo d’armata » Garosci

 

(59) Lettera del colonnello Huntington al generale Clark, 16 ottobre 1945, inviata per conoscenza al generale Pavone.

 

(60) Lettera del generale Pavone all’OSS. Spec. Det. G~2, Headquarters Fifth Army, 16 ottobre 1943.

 

(61) Queste notizie si ricavano dalla relazione che fece Tarchiani al comitato di collegamento il 30 ottobre (vedi poi). Nel suo Diario, sotto la data del 20 ottobre. Pavone parla con sdegno di un’altra richiesta di un certo numero di uomini per il dopodomani, presentata sotto il profilo di una specie di prova generale « dopo il buon risultato delle pattuglie, « questi signori », scrive Pavone, « non hanno inteso l’onta di questa proposta! ».

 

(62) Ricavo la notizia da un appunto in calce al promemoria non inviato. L’appunto è redatto dal colonnello Mario Tanferna. che Pavone aveva nominato suo capo di stato maggiore.

 

(63) . GAROSCI op, e loc. cit. Su questo punto abbiamo raccolto inoltre alcune testimonianze orali, per le quali ringraziamo ancora una volta Raimondo Craveri e Pasquale Schiano, nonché Paolo Buffa, Marcello Marrone, Aldo Sanna. Anche F. Caracciolo (op. est., p. 6) parla del contrasto che sin dai primi giorni si rivelò « fra le direttive alleate e quelle che ritenevamo di dover imporre alla nascente organizzazione ».

 

 

(64) Su questo punto ha richiamato l’attenzione R. Battaglia, Esame della condotta di guerra degli angloamericani in Italia, in Rinascita, IX. 9 (settembre 1952), p. 499.

 

(65) Del « clima eroico delle quattro giornate » di cui poterono in un primo momento fruire i Gruppi Combattenti Italia parla F. Caracciolo, op. dr., p. 6. Anche A. Omodeo ricorda lo «slancio d’azione » generato dalle quattro giornate e che « abilmente utilizzato avrebbe fatto affluire in linea non poche forze » (Le vicende…, cit., p. 157).

 

(66) F. CARACCIOLO, op- cit.. p. 6 (dove l’afflusso dei volontari è definito « imponente »); A. Garosci, op. cit-, p. 101; M. Salvadori, op- cit., p. 231; testimonianze fornitemi dai già ricordati P. Buffa. M. Marrone, A- Sanna.

 

(67) Vedi il verbale della seduta, che pubblichiamo in appendice. Anche R. Craveri mi ha detto che, ove si fossero dovuti selezionare i presentatisi, non ne sarebbero rimasti più di cento. Non del tutto fondato rimane però il giudizio di R. Battaglia. (Storia…cit., p.179) the attribuisce il fallimento del corpo volontari, oltre che alla cattiva volontà alleata, al fatto che fossero mancate le forze per formare « anche una modesta colonna di poche decine d’uomini ».

 

(68) Rapporto in data 23 ottobre 194} del colonnello Tanferna al generale Pavone. Il Tanferna racconta anche che i militari alleati avevano tenuto a dirgli molto chiaramente che essi intendevano reclutare soltanto alcuni commandos destinati ad agire anche in borghese.

 

(69) G. PAVONE, Diario, 18 ottobre 1943.

(70) « …spesso uomini magnifici …» li definisce A. Garosci, op e loc. cit, (cfr. altro giudizio positivo a pp. I03-4).

 

(71) A. GAROSCI, op. cit.. pp. 101-102. Nell’ultima lettera al fratello Pintor, riandando col pensiero, pur senza nominarli, a questi avvenimenti, parlerà di « progetti più ambiziosi ma non irragionevoli » falliti per ragioni indipendenti dalla sua volontà (G. Pintor, op. cit., p. 246).

 

(72) G. PINTOR, Il colpo di Stato dei 23 luglio, scritto a Napoli nell’ottobre. Del 1943, ora riprodotto ne Il sangue d’Europa, cit., p. 241.

 

(73) La frase è riportata da C. BARBAGALLO, op. cit., p. 15.

 

(74) B. CROCE, Diario, cit.t p. 21.

 

(75) L’Italia Libera, n. 1, Bari, ottobre 1943. Nell’opera di RAGGHIANTI e in Una lotta nel suo corso, già citt-, troviamo commentata la supervalutazione della portata pratica del tentativo Pavone fatta da alcuni esponenti del partito d’azione dell’Italia invasa. RAGGHIANTI, ad esempio, alla fine del novembre 1943 (un mese dopo lo scioglimento dei volontari) inviava a PARRI un progetto di organizzazione dei partigiani in un Esercito di Liberazione Nazionale che avrebbe dovuto agire in stretto collegamento con l’altro esercito comandato da Pavone « per modo di rendere un tutto unitario i due corpi che operavano sul fronte e dietro il fronte ». Ancora il 2 febbraio 1944 RAGGHIANTI scriveva allo stesso PARRI sulla necessità che le bande partigiane venissero fornite di un bracciale che le facesse riconoscere « come formazioni regolari belligeranti, appartenenti all’Esercito di Liberazione Nazionale di Pavone ». (Una lotta… cit.. pp. 275 e 19).

 

(76) Citato da A. DEGLI ESPINOSA, op. cit., p. 163. Quale esempio di reazione degli ambienti monarchici vale la pena riferire il sia pur tardivo commento di DEGLI ESPINOSA, secondo il quale (p. 164) «se Sforza avesse guardato la realtà invece di stare a sentire quelli del Fronte, avrebbe constatato che i volontari erano pochi, e che questi pochi non avevano nessuna necessità di giurare fedeltà all’Italia soltanto, poiché essi si ritenevano già vincolati a tale fedeltà dal giuramento che avevano fatto al Re ».

 

 

(77) A. GAROSCI, op. cit, p. 101.

 

(78) M. SALVADORI, op. cit. p. 225.

 

(79) Cosi egli mi ha esplicitamente detto.

(80) B. CROCE, Per la nuova cita…, cit., p. 22. Già nella lettera a SFORZA del 20 ottobre (che pubblichiamo in appendice) CROCE aveva mostrato di temere che l’esercito divenisse strumento di « semifascismo »» e di corruttela.

 

(81) F. FLORA, Appello al re (6-10 novembre 1943?). in Stampa dell’era fascista, Roma, 1945, p. 143.

 

(82) Che gli aspiranti volontari ponessero la condizione di non avere a che fare con militari di carriera è precisa testimonianza fornitami da Aldo Sanna. Da questo punto di vista Pavone e. ancor di più, ì numerosi ufficiali di cui egli si era circondato, costituirono una indubbia remora.

 

(83) Sull’episodio vedi la comunicazione di L. VALIANI in questo stesso Convegno. Cfr. anche A. DEGLI ESPINOSA, op. cit.. pp. 178-79 e C. L. RAGGHIANTI, op. cit., pp 55-56-

 

(84) Sulla maggiore fiducia del re in ROTTA che in BADOGLIO ha richiamato l’attenzione L. PICCARDI nella sua comunicazione a questo Convegno. Anche R. CRAVERI mi ha fatto dichiarazioni in tal senso, notando che Badoglio aveva già troppi motivi di attrito col re (dichiarazione di guerra alla Germania, abbandono del titolo

di re di Albania e imperatore di Etiopia, acquiescenza di BADOGLIO al progetto di reggenza) per aggiungervi a cuor leggero anche la faccenda dei volontari. Della ostilità nettissima di Roatta e Ambrosio contro i volontari e delle pressioni che essi esercitavano in proposito su Badoglio parla più volte Pavone nel suo Diano (vedi,

ad esempio, il brano da noi pubblicato in appendice).

 

(85) A. DEGLI ESPINOSA, op. cit., pp. 131-32.

 

(86) Il manifesto, firmato dal colonnello Dante Bedoni, fu trovato affisso dal colonnello Tanferna sulla porta della caserma di Torre Caracciolo dove era accantonato un distaccamento dei Gruppi Combattenti (cfr. nota 68). Grande fu la sorpresa sia di Tanferna che di Pavone, del tutto all’oscuro dell’iniziativa. Particolare di colore: il bando diceva che sarebbe stata data la precedenza« a coloro che sono in

possesso di divisa militare ».

 

(87) M. SALVADORI, op- cit., p. 231. Il SALVADORI che, per la sua dimestichezza coi comandi alleati, è in materia fonte autorevole, fin dal 10 ottobre parla dì passi in questo senso di Badoglio presso la commissione alleata.

 

(88) P. Badoglio, op. cit.. p. 158.

(89) A. DEGLI ESPINOSA, op. cit., p. 195.

(90) Sul Raggruppamento Motorizzato vedi S. E. CAPRANZANO, Il I Raggruppamento Motorizzato Italiano (a cura dello Stato Maggiore Esercito, Ufficio Storico). Roma. 1949- Intorno al Raggruppamento si trascinò poi a lungo la polemica, se i soldati di esso combattessero per l’Italia e non per il re, oppure per il re e quindi, per definizione, anche per l’Italia. L’Unione, monarchica, riferirà, ad esempio, il 29 dicembre che i soldati sono andati alla morte gridando Avanti Savoia! e indugierà a descrivere, per un intero articolo, il Principe Ereditario in linea (Cfr. i commenti affini di A. DEGLI ESPINOSA. op. cit.. pp. 206-7). Al contrario, di soldati che non vogliono combattere per il re parla lo stesso Croce riferendo un giudizio di Piccardi che mi è stato confermato dal suo autore (B. Croce, Diario, cit.. p. 59, e cfr. pp. 78 e 95). Sulle accuse che, in contraccambio, gli ambienti militari rivolgevano ai partiti di svolgere opera di disgregazione fra le truppe ho avuto testimonianza dal già ricordato prof. Benedicty (cfr. anche G. Lombardi, il Corpo Italiano di Liberazione, Roma. 1945, pp. 17-20). Non abbiamo accennato a queste polemiche se non per mostrare come, in quei mesi, le iniziative militari, regolari o irregolari, venivano necessariamente a trovarsi al centro del più generale dibattito politico.

 

(91) B. CROCE, Diario, cit.. p. 48.

 

(92) A. DEGLI ESPINOSA, op. cit.. p. 236, parla di un capitano Rubino che nell’inverno 1943-44 girava per Bari dichiarando di voler arruolare « volontari confessionalmente monarchici – e di aver già pronti 4000 uomini. Il giornale monarchico L’Unione, nei suoi numeri del 25 dicembre 1043 e del I° gennaio 1944. darà ampie notizie di una Colonna Volontari che in una sua pubblica manifestazione aveva esaltato la figura del Sovrano quale unico possibile artefice della rinascita della Patria ».

 

(93) Cfr. MAURIZIO, op. cit., p. 20.

 

(94) CROCE si lamenta, il 17 ottobre, dell’opera che contro i volontari spiegano badogliani e monarchici (Diario, cit., p. 22). Sull’attività del generale BASSO vedi A. GAROSCI, op. cit., p. 101; A. OMODEO, Le vicende…, cit., p. 181; B. CROCE, Diario, cit. p- 27.

 

(95) G. PAVONE, Diario, 19 ottobre 1943.

 

(96) Cfr. B. CROCE, Diario, cit., p. 22.

 

(97) Il colloquio è raccontalo da PAVONE nella pagina del suo Diario che pubblichiamo in appendice.

 

(98) A mostrare quale fosse l’ostilità degli ambienti più vicini al re contro i volontari c il loro comandante vale ricordare il « gesto di orrore con le mani » che fece Acquarone quando SFORZA, il 24 ottobre, gli parlò di PAVONE. L’episodio fu raccontato dallo stesso SFORZA a PAVONE, il quale fu dell’opinione che « la cortesia del conte non gli ha permesso di riferire tutto » (G. PAVONE, Diario, 24 ottobre).

 

(99) F. CARACCIOLO, op. cit., pp. 7-9 (cfr. nota 36).

 

(100) W. CHURCHILL, La seconda guerra mondiale, P. V. voi. I. La Campagna d’Italia, (trad. it.), Milano. 1951. p. 202. A p. 202, dove riporta un suo messaggio a Roosevelt del 21 settembre 1943, Churchill fa dell’ironia sui «professori che sostengono di rappresentare i sei partiti »: difficile non vedere Croce fra i professori. Scrivendo al ministro inglese Mac Millan ad Algeri il 23 ottobre. Churchill raccomanda che in attesa della liberazione di Roma, che permetterà di porre la questione di un allargamento del governo italiano, occorre badare « che nulla sia fatto per rendere il Re e Badoglio più deboli di quanto siano. Anzi, noi dobbiamo sostenerli e imporli con le nostre armate. Contemporaneamente tutte le ricerche di elementi di rinforzo governativo possono continuare » (op. cit., p. 216).

 

(101) « Non è rimasto nulla tra il re e i patrioti, che si sono schierati attorno a lui e che hanno il completo controllo della situazione, e il bolscevismo rampante » scriveva il 5 agosto 1943 Churchill a Roosevelt, commentando preoccupato il fatto che, come a lui sembrava, l’Italia fosse diventata rossa da un giorno all’altro (W. CHURCHILL, op. cit., p. 111). Sull’indirizzo conservatore della politica alleata» a ispirazione prevalentemente inglese, in Italia cfr., fra i tanti, G. SALVEMINi, G. LA PIANA, La sorte dell’Italia, Roma-Firenze-Milano, 1945, passim; B. Croce, Diario, cit., p. 89 e passim; R. BATTAGLIA, Storia… ed Esame… citt., passim; M. SALVADORI, op. cit., p. 232 (« alla Commissione alleata si preoccupano di movimenti rivoluzionari che sono assolutamente da escludere »).

 

(102) A. DEGLI ESPINOSA, op. cit., pp. 63-79; W. CHURCHILL, op. cit., pp. 168-74.

 

(103) CHURCHILL lo ripete ai Comuni il 22 febbraio 1944. cogliendo però l’occasione per ribadire che l’Italia non poteva in nessun caso essere considerata alla stregua degli altri paesi invasi dai nazisti (W. CHURCHILL, op. cit., P. V, vol. II, Da Teheran a Roma, pp. 207-8; A. DEGLI ESPINOSA, op. cit.. pp. 283-84). Cfr. la Risposta a Churchill comparsa su La Nostra Lotta del marzo 1944. n. 5-6* (ora in P. SECCHIA, I Comunisti e l’Insurrezione, Roma, 1954, pp. 130-37).

 

(104) La frase fu pronunciata il 21 settembre 1943, ai Comuni, e divenne poi come il simbolo di tutto un atteggiamento (W. CHURCHILL, op. cit.» p. 172 e passim).

 

(105) G. SALVEMINI, Badoglio nella seconda guerra mondiale, ne Il Ponte, IX, 7 (luglio 1953. pp. 947-49 (« …il Re e Badoglio non avrebbero funzionato che come cinghia dì trasmissione a servizio dei padroni angloamericani». scrive Salvemini: anche Pavone ebbe « un certo punto la chiara sensazione di essere considerato nulla più che una cinghietta di trasmissione). Sulla cattiva volontà anglo-americana nei confronti della partecipazione italiana alla guerra contro i tedeschi, la migliore letteratura è concorde. Ricorderemo qui, oltre Salvemini, soltanto gli autori che abbiamo già avuto occasione di menzionare: MAURIZIO, op. cit., passim; P. BADOGLIO, op. cit.. pp. 142, 245-51; R. BATTAGLIA, Esame…, cit-, p. 554 e Storia…, cit., passim: A. DEGLI ESPINOSA. op. cit., p. 2) (conferenza stampa Alexander, 2) ottobre: « qualsiasi aiuto degli italiani è stato per noi un abbuono… »). pp. 74, 79, qq (citazione dal Times del 15 ottobre: – l’Italia cobelligerante può rendere validi servizi a se stessa e alla causa alleata, in modi diversi che combattendo i tedeschi »): B. CROCE, Diario. cit., pp. J2, 125 (cfr. F. GULLO, A Salerno, capitale d’Italia, col primo ministero nazionale, in RINASCITA, XI, 6 (giugno 1054), p. 407).

 

(106) L. VALIANI, op. cit., pp. 113-15; MAURIZIO, op. cit., p. 19 (« Gli alleati » scrive Pam, – avrebbero preferito una partigianeria italiana organizzata in piccoli e mobilissimi gruppi di sabotatori, attivisti e sentinelle perdute nell’esercito alleato »). Cfr. P. SECCHIA, op. cit., pp. XIX-XX. Per un problema simile postosi alla Resistenza francese, vedi P. Hervé, \ <; Liberazione tradita, (trad. it.), Milano, 1946, pp. 52-56.

 

(107) «…lo Stato Maggiore ed ACQUARONE tramano. BADOGLIO va a Napoli a trescare contro i volontari buoni e sani!» aveva annotato nel suo Diario PAVONE il 27 ottobre.

(108) In appendice pubblichiamo il verbale della riunione.

 

(109) Anche il promemoria è pubblicato in appendice.

 

(110) La lettera, in data 31 ottobre, è pubblicata in appendice. « Licenziamento del servo » fu il primo irato commento di PAVONE (Diario, 1° novembre), « Data l’estrema penuria di viveri e l’impossibilita di armare con i nostri mezzi anche piccole unita militari in vista di un impiego regolare, data l’aggiunta impossibilità di provvedere locali per l’acquartieramento e l’addestramento senza il

diritto di requisizione, il ritiro dell’appoggio alleato equivaleva ad una condanna a morte della nostra iniziativa»: cosi scrive F. CARACCIOLO, op. cit., p. 9. Pasquale Schiano mi ha testimoniato della imbarazzante situazione in cui vennero a trovarsi quegli uomini che gli anglo-americani avevano di loro iniziativa mandato dire le linee e che, tornando dalle loro missioni (ma alcuni non tornarono più), trovarono disciolto il corpo cui ppartenevano: alcuni di essi, ricorda Schiano, finirono addirittura nei campi di concentramento della Tunisia.

 

(111) La lettera è pubblicata qui in appendice. Su Munthe vedi le espressioni di simpatia che gli dedica CROCE in Diario, cit., p. 75.

 

(112) B. CROCE, Diario, cit., p. 27 (in data 31 ottobre).

 

(113) Vedi, su di essi, quanto accenna CROCE stesso in Diario, cit., pp. 26-27.

 

(114) PAVONE nel suo Diario avanza il sospetto, molto vagamente, in verità, che la sua causa non fosse stata sostenuta fino alla fine con tutta la possibile energia da CROCE e da SFORZA.

 

(115) M. SALVADORI, op. cit., p.

 

(116) Non sono riuscito a rintracciare il giornale fascista che pubblicò la notizia, ma serbo del fatto sicura memoria personale (probabilmente fu un giornale pubblicato a Modena).

 

(117) Cfr. A. GAROSCI, op. cit., passim e B. ALLASON, Giaime Pintor (a dieci anni dalla morte) ne il Giornale, 1° dicembre 1953.

 

(118) R. CRAVERI, Un servizio segreto, in Mercurio, numero speciale dal titolo Anche l’Italia ha vinto (dicembre 1945), pp. 104-110. E cfr. MAURIZIO, op. cit., p. 13n.

 

(119) Scrive, ad esempio, F. CARACCIOLO, op- cit.. p. 6, che il contrasto fra i Gruppi Combattenti Italia e gli alleati « doveva riprodursi più tardi fra gli stessi alleati e Ferruccio Parri circa l’impostazione di tutta la resistenza italiana »: il paragone puntuale con Parri è fuor di dubbio eccessivo; ma la sostanza del giudizio appare fondata.

 

 

(120) L’espressione è di MAURIZIO, op. cit., p. 8.

 

 

 

ALLEGATI

 

 

 

I

HEADQUARTERS FIFTH ARMY

HQRS OFFICE OF STRATEGIC SERVICES

SPECIAL DETACHMENT G-2

(Villa Maria)

8 october 1943

SUBJECT: italian Operational Groups – Organization

TO : General Giuseppe Pavone

 

 

1. By communication from the undersigned to you, dated 5 October 1943, you were advised that the Basic Communication dated 26 September 1943, of this office to General Clark, Commanding General, Fifth Army, outlining a proposal for the organization and use of Italian Operational Groups, had been approved for the Commanding General by endorsement dated 4 October 1943, subject to certain conditions.

 

2. For your information the authority, as set forth in the Basic Communication and Endorsement provides, substantially:

a. That Italian Operational Groups (units of Italian officers and soldiers organized in groups consisting of 4 officers and 30 enlisted men each limited, initially, to 15 groups) be organized under the direction of the Committee of which you and Signor Benedetto Croce are members.

b. That you will be the Military Member of the Committee m charge of such organization assisted by a staff of subordinates to be chosen by you with the approval of the Committee.

c. That supplies, transportation, training facilities, arms and equipment will be furnished through the efforts of OSS and SOE.

d. That such expenses as may be necessary m connection with the undertaking shall be borne by OSS and SOE; and

e. That the following conditions shall apply:

1. Such operational groups will be non-political in character and not identified with any political group.

2. Care will be exercised to prevent any effort, military or political, being made to the opposition of the Italian King and Badoglio government.

3. The groups will be organized under Italian leadership and will be strictly military in character.

4. The operations of the groups will be completely under the control of the Commanding General, Fifth Army. No operations will be undertaken by the groups except by direction of the Commanding General, Fifth Army.

3. Since time is of the essence in connection with this undertaking OSS has undertaken to procure food, arms and equipment, office and house facilities, and a training area. OSS will provide such funds and such instructors and advisers as may be necessary in making effective the program approved by the Commanding General. OSS has assigned Commander Breed and Mister Savoldi to your staff in order to insure that its cooperation may be made effective.

4. In accordance with the understanding arrived at between OSS and SOE (conference 24 September 1943 at OSS Base Headquarters, Paestum, between General Pavone, Mr. Mundo, General Donovan, Colonel Huntington, Major Munthe and Captain Sylvester) we have this date notified SOE of the steps which have been taken as above outlined; and anticipate a favorable and cooperative response from such organization.

5. In view of the foregoing we respectfully suggest:

a. That you establish at once an office and recruiting center in Naples at the Hotel Mueller which has already been requisitioned for your purposes and where housing and messing facilities are being provided.

b. That you visit and approve the training establishment which has been selected or reject the same and make a new selection.

c. That your staff be immediately chosen (to include appropriate quartermaster, communication, transportation, finance and medical personnel) and that a program be at once instituted calling for the recruitment and training of 3 Operational Groups composed of personnel particularly familiar with the Area between the Volturno and Rome which lies before the Fifth Army, including one group especially familiar with Rome and its environs; and

d. That, through your appropriate Staff Officers, you indicate at the earliest possible moment your requirements of supply and transportation and such estimate of expenses as you are now able to furnish.

ELLERY C. HUNTINGTON JR.

Colonel, Infantry

Commanding

DISTRIBUTION:

I – AC of S G-2, 5th Army

1 – SOE

1 – Washington

1 – Algiers

1 – Files.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

II

BANDO DI ARRUOLAMENTO

 

Il Fronte Nazionale della Liberatone, per i Comandi alleati, costituisce una forza militare di elementi italiani che, armati ed equipaggiati, e sotto il mio comando, combattano a fianco degli alleati per l’onore e la liberazione d’Italia.

A questo intento si è formata l’unione dei liberi italiani che, a prescindere dai partiti dalle idee, sono oggi uniti e decisi a raggiungere questo fine.

Con l’autorità conferitami; con l’animo commosso per questa impresa di grande valore morale e — son certo — di grande efficacia fattiva; da questa terra, ove prima sorse il nome d’Italia, che tutti dobbiamo, solo, avere nel cuore; da questa terra ove già oltre venti secoli addietro sorse l’idea dell’unità della Patria, io chiamo sotto la nostra Bandiera, che è la bandiera d’Italia dai tre sacri colori, tutti i combattenti liberi, e li chiamo col Dovere, alla severa disciplina che sola ci dà la forza, l’onore e la possibilità di soffrire per ben meritare della Patria.

Gli arruolamenti han luogo nei capoluoghi di provincia ed in Caserta.

Potranno essere stabiliti altri centri che saranno resi noti. Presso di essi gli italiani troveranno ogni indicazione per arruolarsi al servizio della Patria in quest’ora decisiva della Sua vita, del Suo onore. Ognuno sarà arruolato con

il proprio grado.

Italiani che avete combattuto e dolorato, che avete vinto tante battaglie;

Combattenti che ricordate col nodo alla gola la gloria di Vittorio Veneto, dopo il dolore di Caporetto;

Uomini d’ogni fede, amanti della Pattria onorata e libera;

Accorrete tutti a formare questi reparti che devono combattere e vincere.

Il vostro numeroso affluire da ogni terra d’Italia, dove si soffre e si spera, dove si lotta e si vince, dirà che noi abbiamo già la vittoria in pugno avendo vinto noi stessi, avendo superato l’ora grigia ed oscura che anche gli eroi provano durante il travaglio per compire l’opera.

Noi tutti abbiamo provato il tormento!

Con esso abbiamo ravvivato la fiamma della fede che vince ogni battaglia, che sola sarà coronata.

Viva l’Italia!

IL COMANDANTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III

BENEDETTO CROCE A CARLO SFORZA

 

Sorrento, 20 ottobre 1943.

Carissimo Carlo

benvenuto in Italia, dove eri molto e generalmente atteso. Io avrei desiderato, e desidero ancora, d’informarti di cose che possono sfuggirti e delle quali ho avuto esperienza. Bisognerà che ci vediamo in qualche parte, venendo io, se non a Bari, a mezza strada. Intanto mi sta a cuore, con grande preoccupazione, la linea politica che evidentemente il Re ha intrapreso. Avendo già salvato la monarchia col darsi al fascismo e servirlo, e poi buttato via il fascismo quando non sarebbe stato più un sostegno ma un pericolo della monarchia, ora tenta di crearsi una base nei tanti i cui interessi sono legati al fascismo, e tra l’altro anche nel sudicio Senato, che converrebbe sciogliere e rifare.

L’esercito che egli sta raccogliendo, e al quale tutti noi italiani dobbiamo dare il nostro appoggio per la liberazione d’Italia e per il suo avvenire, potrà diventare strumento di un regime di semifascismo e per la continuazione della corruttela della vita italiana.

Questo è il pericolo che io vedo, contro questo tu starai certamente in guardia, e io sarò felice se potrò essere rassicurato in questa parte.

Ti abbraccio

Tuo Benedetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV

CARLO SFORZA A PIETRO BADOGLIO

 

Bari, 22 ottobre 1945.

Caro Badoglio

leggendo la Sua lettera ho sentito la tragedia della Sua posizione — e Le confermo il mio ardente desiderio di fare quanto posso nel senso che Le dissi. — Ma questa non è una posizione che si può migliorare passo a passo: si fallirebbe; un nuovo ministero sarebbe ora rinnegato da tutti gli amici, e perciò sarebbe inutile e nocivo. Invece la situazione può trasformarsi felicemente e radicalmente con mosse storiche che darebbero nuova vita a un paese e a dei soldati disorientati. Lei ha il mezzo (e quindi credo anche ti dovere, pel Suo nome e per la nostra Italia) di imporre tali cambiamenti storici facendo sentire a colui (anzi a coloro) che devono accettarli che solo così si può salvare la pace sociale d’Italia e anche le

istituzioni.

Sarò felice di rivederLa a Napoli; ma il tempo preme.

Sempre a Sua disposizione per scambio d’idee.

Affezionatissimo

Sforza.

 

 

 

V

PIETRO BADOGLIO A CARLO SFORZA

 

23 ottobre [ 1943]

Caro Sforza

il generale Pavone mi ha consegnato la Sua lettera.

Ci vedremo a Napoli e potremo insieme esaminare la situazione e il nodo di farvi fronte.

Affezionatissimo

Badoglio.

 

 

 

 

 

 

VI

DAL DIARIO DEL GENERALE PAVONE (24 ottobre 1943)

 

 

Ieri siamo andati a Brindisi, per una conferenza con Badoglio, Caracciolo, Craveri ed io. Conferenza preparata dal ten. col. [Rosenbery] capo dell’Intelligence Service. Caracciolo aveva preceduto la sera avanti per una conferenza con Caccia del Foreign Office.

Siamo andati da Badoglio il quale ci ha ricevuto in piedi e — profetica anima mia! — ci ha trattenuti esclusivamente sui volontari chiedendo a me: cosa sono questi volontari?

lo ho narrato tutto premettendo quello che avevo visto sulle strade e come tutti i soldati si lamentassero dell’abbandono dei loro superiori e non volessero più combattere con i loro superiori; come volontari sì. Detto quello che avevo ottenuto (distintivo, bandiera). Faccio selezione, tacitato discussioni politiche, ecc. Badoglio : l’esercito nostro farà servizio nelle

retrovie (…. timore di italiani contro italiani} ed invierà dei volontari alla V Armata.

E’ facile fare le deduzioni per noi. Craveri commenta : fregati in pieno! Caracciolo è trattenuto per una conversazione politica.

(Segue un accenno a un colloquio di Craveri con Piccardi., il quale dice che Badoglio ha mosso rimproveri a Pavone per i volontari : « E’ certo che i grandi Roatta e compagni sono decisamente contrari » commenta Pavone).

lo torno da Badoglio alle 17 e sto mezzora. Volutamente porto due volte il discorso sui volontari ma egli non dice nulla! Falso? Certo tace.

lo sono, come sempre, leale con lui. È sempre cosi. (A sera Craveri mi dice che facevano questione di paghe. Se avessi pensato ciò, avrei spiegato!). Mi dà la lettera pel conte Sforza e mi parla della soluzione politica come egli la vedrebbe. In queste condizioni, a Brindisi, non si può fare nulla; una volta a Roma invito a tutti i partiti di partecipare al Governo. Se non

può farlo egli si ritirerebbe, indicando al re chi sentirà ed allora questi dovrebbero dire…..

lo penso a due pericoli: l’interregno a Roma ove potrebbe sorgere altro governo ed arrivare tardi con le conversazioni — e sopratutto temo che il re faccia altro colpo chiamando un Grandi piuttosto che sentirsi dire che deve andarsene. Pensano a ciò? Lo dovrò dire. Ho accennato ad Acquarone ed egli ha negato ogni di lui influenza. Abbiamo detto cose minori.

*******************************************************************

La mia impressione è che i generali della sconfitta premono su Badoglio per faare scegliere la nostra organizzazione di volontari e per questo viene a Napoli per parlare col gen. Clark, comandante la V Armata. Gli inglesi sono nettamente contrari a noi. Accetterà due volontariati nella sua armata il gen. Clark? e gli accordi? Riprendono in me valore tutti gli

indizi contrari che ho rilevato. Vedremo. La questione militare è connessa alla politica.

 

 

 

 

VII

VERBALE

DELLA RIUNIONE DEL COMITATO DI COLLEGAMENTO A. A. I.

DEL 30 OTIOBRE 1943

31 ottobre 1943.

 

Sono presenti i sigg. : gen. Pavone, Randall, Tompkins, Torchiarli, Tanfema, Mundo, Caracciolo.

La seduta si apre alle ore 10 e si chiude alle ore 11,25.

Il signor Tarchiami chiede di essere il primo a prendere la parola per esporre in sintesi la situazione. Il gen. Pavone aderisce senz’altro ed il sig. Tarchiami dopo aver sottolineato la necessità di guardare le cose in faccia espone gli elementi della situazione di fatto.

Trattandosi di un bilancio della attività di circa un mese svoltosi in modo più o meno regolare, conviene dire senz’altro a che punto siamo.

Cominciando dalla parte attiva è disponibile oggi una Caserma capace di ospitare da 200 a 500 volontari. Esistono circa 130 volontari di cui 35 più 10 ufficiali sono già selezionati. Vi è una disponibilità di 150 divise e di 150 razioni alimentari giornaliere.

Egli fa notare che i membri del Comitato Politico rinunciano a qualsiasi emolumento e che le spese per la organizzazione militare diretta sono state modeste. A questo proposito vorrebbe che la paga da accordarsi agli ufficiali fosse quella del capitano.

Continuando egli mette in rilievo i diversi inconvenienti che si sono verificati nel’organizzazione:

1) Un afflusso esagerato di ufficiali non idonei the d’altra parte sono già stati energicamente eliminati.

2) Il prelievo dalla Caserma Deposito a vane riprese di una 45 uomini, senza preventivo accordo.

3) Rifiuto di compiere un’operazione da parte di un gruppo di uomini scelti come sabotatori.

4) Qualche confusione nell’uso di lasciapassare rilasciati a persone indicate dall’avv. Schiano.

5) Il rifiuto da parte di un individuo indicato dall’avv. Schiano di compiere un’operazione per la quale si era apparentemente offerto.

 

Questi inconvenienti sono in gran parte giustificati:

1) dalla mancanza di alloggio;

2) dalla irregolare fornitura dei viveri;

3) dal prelievo effettuato presso la Caserma Deposito di uomini impreparati;

4) dalla mancanza di viveri e delle armi;

5) dalla forzata assenza nell’ultima settimana del gen. Pavone.

Si rileva che gli elementi esposti sopra hanno ingenerato nell’ambiente americano un certo senso di sfiducia.

Al riguardo andrà anche notato che il maresciallo Badoglio ha offerto in questi giorni al generale Clark un insieme di 5.000 uomini. Gli sarebbe stato risposto che, mentre una grossa formazione era superflua, 500 uomini avrebbero potuto essere impiegati utilmente.

Tutto ciò pone il Fronte Nazionale della Liberazione e l’organizzazione dei volontari da esso patrocinata in una situazione critica.

Di fatto l’iniziativa dei volontari è sorta da un colloquio Croce-Donovan, e precisamente dall’affermazione del senatore Croce circa l’opportunità di dare modo agli italiani, sia pure in misura ridotta, di partecipare attivamente alla lotta contro i tedeschi e di simboleggiare la genuina espressione del sentimento popolare nella confusione di tutti i valori prodotta dalla catastrofe e dal fallimento fascista.

Si tratta, quindi, di una iniziativa che ha un alto significato politico, oltreché militare e come tale e stata accettata dal gen. Donovan e patrocinata dal F. N. L..

Nel corso di questo mese la situazione sembra cambiata.

Le operazioni di sabotaggio, l’uso frammentano di piccoli gruppi vestiti, magari in borghese, sono senza dubbio necessari e meritori da un punto di vista strettamente militare. Esse non hanno, tuttavia, altro significato che quello militare e l’opera di un Comitato politico che si limita a reclutare uomini per tali scopi, è superflua.

Il signor Tarchiani, esprime quindi il parere che o si torna al concetto ispiratore dell’accordo Croce-Donovan, o, se l’autorità alleata desidera solo dei gruppi di sabotatori e guastatori, che il F. N. L. si ritiri da questa attività che non potrebbe compiere utilmente.

Nel primo caso, il sig. Tarchiani formula le seguenti proposte:

1) ritiene che in una settimana occorra radunare 200 uomini selezionati. Che questi 200 debbano essere portati a 510, come da precedenti accordi, in un mese.

2) Egli chiede quindi che:

a. siano disposte in un primo tempo razioni alimentari quotidiane per 250 persone, aumentabili, via via entro il mese, fino a 600 (il soprannumero è determinato dalle necessità degli uomini tenuti per qualche giorno in osservazione, prima di essere definitivamente incorporati o scartati);

b. che siano assicurate le uniformi e le armi nella stessa proporzione;

c. che si consenta qualche facilità di comunicazione con le Provincie per il reclutamento od ti trasporto di gruppi già formati.

Deve essere ben chiaro che i 510 uomini vanno impiegati in operazioni di guerra.

Per quanto riguarda specificamente i sabotatori non vi è nessuna difficoltà ad indirizzare quegli elementi che sembreranno idonei verso gli uffici specializzati.

Il signor Mundo dichiara di associarsi alle parole del sig. Tarchiani.

Il colonnello Tanferna fa alcune osservazioni di carattere tecnico.

1) Egli mette in chiaro che pur avendo avuti taluni rifornimenti non ha ricevuto regolarmente il numero di 150 razioni alimentari al giorno e che anzi, durante 5 giorni, gli sono mancati totalmente i viveri.

2) Precisa, che oltre al prelevamento già avvenuto dei 45 uomini, debbono ritenersi perduti per l’organizzazione quasi tutti i volontari inviati a Torre Caracciolo.

3) Si associa per il resto alle parole del signor Tarchiani.

Il generale Pavone dichiara che nuclei di truppa sono stati prelevati in corso di istruzione senza precisi accordi con lui.

Egli insiste nella affermazione che tale metodo è poco militare e non può dare buoni frutti per molteplici ragioni. Sopratutto per il fatto che esso mina alla base l’organizzatone, impedendo una selezione efficace ed un addestramento dei reparti, concetti d’altra parte più volte riconosciuti anche dagli alleati.

Teme che il lavoro sia reso più grave da ciò.

Insiste anche sugli inconvenienti che sono derivati dalle difficoltà inerenti al vitto ed agli alloggi dei volontari.

Proseguendo il generale Pavone lamenta qualche deficienza nel collegamento con gli alleati. Del resto, in una maniera generale, circa gli inconvenienti di cui si e trattato esiste una sua lettera al colonnello Huntington che segnala tutti i pericoli di voler cogliere i frutti di una iniziativa prima che essa sia maturata.

Per concludere, il generale Pavone si associa alle conclusioni del signor Tarchiani che rispondono ai concetti già da lui, Pavone, espressi al generale Donovan.

Il capitano Randall, per quanto riguarda il suo servizio, afferma che in effetti quello che più lo interessa è la esistenza di piccoli gruppi da adoperarsi per azioni dietro le linee e di sabotaggio.

Il signor Tompkins chiede che siano esposte in un breve promemoria le richieste specifiche emerse da questa discussione con particolare riguardo al tempo necessario per la preparazione dei volontari.

Egli desidera poterle fare esaminare e rispondervi con un massimo di charezza.

 

 

PROMEMORIA RICHIESTO DAL SIGNOR TOMPKINS

(allegato al verbale della riunione del Comitato)

 

In vista di raccogliere, equipaggiare ed istruire nella nota caserma di Pozzuoli e nel più breve tempo possibile il gruppo previsto di 510 volontari si richiede quanto segue:

1) Subito un numero quotidiano di 250 razioni alimentari aumentabili

entro un mese a 600.

2) Un numero di uniformi e di armi corrispondente.

3) La possibilità di comunicare con le Provincie per l’arruolamento e l’affluenza di qualche gruppo di volontari già predisposto.

Si precisa che i gruppi costituiti debbono essere impiegati per operazioni di guerra agli ordini della V Armata, sotto la diretta azione di comando e la responsabilità del Comando italiano.

Si ritiene che, salvo casi eccezionali, i gruppi di volontari debbono essere adoperati organicamente e solo per eccezione in modo frammentario. Difatti non bisogna mai perdere di vista il fatto che la loro importanza e politica quanto militare e bisogna preoccuparsi dell’eco che la loro azione deve suscitare nell’Italia occupata.

Per quanto riguarda il tempo necessario alla preparazione dei volontari si ritiene che esso possa essere limitato fra un minimo di 15 e un massimo di 45 giorni.

 

 

 

 

 

VIII

OFFICE OF STRATEGIC SERVICES

SPECIAL DETACHMENT G-2

HEADQUARTERS FIFTH ARMY

 

31 october 1943

SUBJECT: Gruppi Combattenti Italia

TO : Lieut. General Giuseppe Pavone

 

1. In view of the statements made by you in your Pro Memoria of October 30. 1943, that:

 

a. the 510 Officers and men of the GCl should operate as a unit rather than as individual groups

b. they should operate as purely military rather than both as military and civilian personnel

c. it would take 15 to 45 days to tram the groups

 

and in view of the fact that military requirements demand that we furnish immediately 510 Officers and men willing and qualified to operate in small units both as military and civilian personnel, we must inform you that:

a. we are obliged to seek the 510 Officers and men authorized by Fifth Army directive, from an organization which is prepared to furnish them at once

b. as of November I. 1943 it will impossible for this Detachment to furnish food and clothing to the GCL.

2. I sincerly regret that military requirements have made it impossible for us to procure the necessary personnel from the GCI, and assure you that we sincerely appreciate your effort on behalf of the Allied cause.

ELLERY C. HUNTINGTON JR.

Colonel, Infantry

Commanding

 

 

IX

IL MAGGIORE MUNTHE AL GENERALE PAVONE

VT-8-63

TO: General Pavone

Dear General.

for some time past I have been meaning to write you a letter as I was unable to call on you before you left Naples. I take the liberty to express to you my most sincere personal regret that you are no longer with us to work for the cause you had so whole heartedly before you and which I feel stood to gain so much by leadership such as yours. I well appreciate the many difficulties with which you were faced throughout the weeks of your work, and some of these difficulties, I fear, will appear to have been, in part at any rate, of our own making; but nevertheless, Sir, the main objective was surely attained, for it was your great initiative that stirred the Authorities to greater activity in the formation of centres of resistance for all Italians wishing to free themselves from fascism.

I look forward to the day when I may have the pleasure of seeing you again in much happier circumstances.

I beg to remain, Sir, yours very sincerely

26th Nov. 1943

MALCOLM MUNTHE

Major. The Gordon Highlanders

O. C. Special Force. Att 5th Army